Piero Ostellino
corriere della sera
IL CONFLITTO CULTURALE ITALIANO
Idee diverse di democrazia
Dovrebbero essere a confronto «una certa idea dell'Italia» del centrodestra e una, diversa, del centrosinistra. Ma non l'ha nessuno dei due schieramenti. Il Partito democratico va a rimorchio dei media che camminano di concerto con la magistratura del «caso Ruby»; Pier Luigi Bersani dice che non vorrebbe vivere in un Paese dove il capo del governo regala 187 mila euro a una minorenne: più una battuta del genere «signora mia, non ci sono più le mezze stagioni» che una dichiarazione programmatica per un'alternativa di governo. Silvio Berlusconi ha ridotto «una certa idea dell'Italia» all'idea che ha di se stesso; è l'epitaffio dello «spirito del 1994», di tanto in tanto riesumato come una sorta di respirazione bocca a bocca al governo per rianimarne l'immagine appannata. A esercitare una funzione di supplenza della politica - che latita - sono i media più radicali. Non è uno spettacolo incoraggiante.
Ciò che è in gioco è, così, «una certa idea della democrazia» che hanno non i due schieramenti politici, bensì due minoranze culturali inconciliabili. L'una, più attiva e rumorosa - come, per esempio, quella che si è radunata recentemente al PalaSharp di Milano -, manifesta la propria «indignazione» nei confronti del Paese del quale crede di essere l'avanguardia; detta la linea alle opposizioni che, non avendone alcuna, vi si adeguano, e «si siedono dalla parte del torto, visto che tutti gli altri posti sono già occupati» (Bertolt Brecht).
La seconda minoranza, meno rumorosa, è dispersa, i media la ignorano o quasi; non si raduna da alcuna parte; si sa della sua esistenza grazie a quattro gatti che insegnano in qualche università e scrivono su qualche giornale sopportati come un cane in chiesa. È realista, scettica, relativista, tollerante quanto basta per non pretendere di dettare la linea a nessuno. È guardata con sospetto perché parla di Individui - dieci, mille, un milione (Max Weber) - non di quell'astrazione ideologica chiamata collettività che è la rassicurante cuccia dei conformisti e ha riempito i lager dei totalitarismi del Novecento; difende i diritti e le libertà individuali, compresi la proprietà privata e il mercato, osteggiata da tecnocrati e programmatori delle vite altrui e da chi ha fatto dell'invidia sociale una bandiera egualitaria.
Entrambe le minoranze credono che ogni comunità sia fondata su principi morali condivisi; ma quella rumorosa «eticizza» la politica, dividendo il mondo in buoni e cattivi - con tutti i buoni da una parte e tutti i cattivi dall'altra - e assegna a se stessa, una élite sacralizzata, depositaria delle pubbliche virtù, il compito di redimere i cattivi. È una rappresentazione falsata della realtà - fatta di zone grigie - ad uso di una missione che è quella di una nuova Inquisizione piuttosto che quella affidata al senso comune di una comunità laica. È una sindrome totalitaria.
L'élite auto-sacralizzatasi aborre la parola «qualunquista», con la quale designa l'«uomo qualunque» che ritiene un cretino o un fascista; la minoranza che i più ignorano, o dileggiano, la ama. Qualunquista è «l'uomo della strada», che cammina al nostro fianco, portandosi sulle spalle, come noi, la democrazia; l'uomo che vota, decretando un vincitore fra valori e interessi diversi, e persino opposti, in una «società aperta» (Karl Popper) e di «pluralismo di valori e di interessi» (Isaiah Berlin). Se certi valori e certi interessi fossero, in sé, più nobili che senso avrebbe ancora contare le teste, votare? La partecipazione alla vita pubblica - secondo un altro mantra della minoranza integralista - sarebbe la più alta espressione della dignità del cittadino. Era la «libertà degli antichi» nella Polis dove contavano i pochi. Per l'altra minoranza, quella liberale, il cittadino ha il diritto di farsi gli affari suoi - non votare è una manifestazione di libertà - senza per questo essere un nemico dello «Spirito del Progresso». È la «libertà dei moderni» (Benjamin Constant).
A tutt'oggi, è la minoranza più rumorosa che pare prevalere e aver ridotto alla subalternità culture, gruppi sociali, media meno aggressivi. Ma è una vittoria dimezzata perché fondamentalmente contraria alla Modernità (vedi Jean-Jacques Rousseau) nella quale, ancorché faticosamente, sta entrando il Paese. Saranno i giovani - alcuni dei quali, ora, sposandone le suggestioni razionaliste, credono di procedere sulla strada di un «luminoso avvenire» collettivo - a riscattare, con l'«uomo qualunque», il senso comune. Essi già rivendicano le proprie libertà individuali. Non sarà, forse, la vittoria della minoranza colta e liberale - figlia dell'Illuminismo empirico e scettico anglosassone - ma, certamente, l'affrancamento dell'Italia dalle illusioni dell'Illuminismo razionalista francese. Più normale.
Piero Ostellino
28 febbraio 2011
corriere della sera
IL CONFLITTO CULTURALE ITALIANO
Idee diverse di democrazia
Dovrebbero essere a confronto «una certa idea dell'Italia» del centrodestra e una, diversa, del centrosinistra. Ma non l'ha nessuno dei due schieramenti. Il Partito democratico va a rimorchio dei media che camminano di concerto con la magistratura del «caso Ruby»; Pier Luigi Bersani dice che non vorrebbe vivere in un Paese dove il capo del governo regala 187 mila euro a una minorenne: più una battuta del genere «signora mia, non ci sono più le mezze stagioni» che una dichiarazione programmatica per un'alternativa di governo. Silvio Berlusconi ha ridotto «una certa idea dell'Italia» all'idea che ha di se stesso; è l'epitaffio dello «spirito del 1994», di tanto in tanto riesumato come una sorta di respirazione bocca a bocca al governo per rianimarne l'immagine appannata. A esercitare una funzione di supplenza della politica - che latita - sono i media più radicali. Non è uno spettacolo incoraggiante.
Ciò che è in gioco è, così, «una certa idea della democrazia» che hanno non i due schieramenti politici, bensì due minoranze culturali inconciliabili. L'una, più attiva e rumorosa - come, per esempio, quella che si è radunata recentemente al PalaSharp di Milano -, manifesta la propria «indignazione» nei confronti del Paese del quale crede di essere l'avanguardia; detta la linea alle opposizioni che, non avendone alcuna, vi si adeguano, e «si siedono dalla parte del torto, visto che tutti gli altri posti sono già occupati» (Bertolt Brecht).
La seconda minoranza, meno rumorosa, è dispersa, i media la ignorano o quasi; non si raduna da alcuna parte; si sa della sua esistenza grazie a quattro gatti che insegnano in qualche università e scrivono su qualche giornale sopportati come un cane in chiesa. È realista, scettica, relativista, tollerante quanto basta per non pretendere di dettare la linea a nessuno. È guardata con sospetto perché parla di Individui - dieci, mille, un milione (Max Weber) - non di quell'astrazione ideologica chiamata collettività che è la rassicurante cuccia dei conformisti e ha riempito i lager dei totalitarismi del Novecento; difende i diritti e le libertà individuali, compresi la proprietà privata e il mercato, osteggiata da tecnocrati e programmatori delle vite altrui e da chi ha fatto dell'invidia sociale una bandiera egualitaria.
Entrambe le minoranze credono che ogni comunità sia fondata su principi morali condivisi; ma quella rumorosa «eticizza» la politica, dividendo il mondo in buoni e cattivi - con tutti i buoni da una parte e tutti i cattivi dall'altra - e assegna a se stessa, una élite sacralizzata, depositaria delle pubbliche virtù, il compito di redimere i cattivi. È una rappresentazione falsata della realtà - fatta di zone grigie - ad uso di una missione che è quella di una nuova Inquisizione piuttosto che quella affidata al senso comune di una comunità laica. È una sindrome totalitaria.
L'élite auto-sacralizzatasi aborre la parola «qualunquista», con la quale designa l'«uomo qualunque» che ritiene un cretino o un fascista; la minoranza che i più ignorano, o dileggiano, la ama. Qualunquista è «l'uomo della strada», che cammina al nostro fianco, portandosi sulle spalle, come noi, la democrazia; l'uomo che vota, decretando un vincitore fra valori e interessi diversi, e persino opposti, in una «società aperta» (Karl Popper) e di «pluralismo di valori e di interessi» (Isaiah Berlin). Se certi valori e certi interessi fossero, in sé, più nobili che senso avrebbe ancora contare le teste, votare? La partecipazione alla vita pubblica - secondo un altro mantra della minoranza integralista - sarebbe la più alta espressione della dignità del cittadino. Era la «libertà degli antichi» nella Polis dove contavano i pochi. Per l'altra minoranza, quella liberale, il cittadino ha il diritto di farsi gli affari suoi - non votare è una manifestazione di libertà - senza per questo essere un nemico dello «Spirito del Progresso». È la «libertà dei moderni» (Benjamin Constant).
A tutt'oggi, è la minoranza più rumorosa che pare prevalere e aver ridotto alla subalternità culture, gruppi sociali, media meno aggressivi. Ma è una vittoria dimezzata perché fondamentalmente contraria alla Modernità (vedi Jean-Jacques Rousseau) nella quale, ancorché faticosamente, sta entrando il Paese. Saranno i giovani - alcuni dei quali, ora, sposandone le suggestioni razionaliste, credono di procedere sulla strada di un «luminoso avvenire» collettivo - a riscattare, con l'«uomo qualunque», il senso comune. Essi già rivendicano le proprie libertà individuali. Non sarà, forse, la vittoria della minoranza colta e liberale - figlia dell'Illuminismo empirico e scettico anglosassone - ma, certamente, l'affrancamento dell'Italia dalle illusioni dell'Illuminismo razionalista francese. Più normale.
Piero Ostellino
28 febbraio 2011
Commenti
Gli uomini non avrebbero solo scoperto, cosa invece difficile, un nuovo aspetto della servitù… Per me, quando sento la mano del potere appesantirsi sulla mia fronte, poco m'importa di sapere chi mi opprime, e non sono maggiormente disposto a infilare la testa sotto il giogo solo perché un milione di braccia me lo porge".
Alexis Charles de Tocqueville