fonte Fermare il Declino
Da Il Foglio del 30/11/2012 di Carlo Stagnaro e Luciano Capone
L'idea di #PB2013 - differentemente dall'uomo delle lenzuolate di cui ormai si smarrisce il ricordo - è che, se c'è qualcosa da fare, deve farla lo Stato.
Pier Luigi Bersani è un po' zio prudente, un po' nobile decaduto. Nel senso di Raffaello Mascetti, il conte di Amici Miei. Gli amici Melandri, Necchi e Perozzi cercano di convincerlo a trasferirsi in uno scantinato: “Ambiente unico, diviso in comparti mobili, come in Giappone. Stile moderno: pare che non c’è nulla e invece c’è tutto". E lui di rimando: "Pare che c’è tutto e invece non c’è nulla". Ecco, così è il suo programma. "Il coraggio dell'Italia" è un agile documento di sedici cartelle, ciascuna puntellata da uno slogan e ogni slogan col suo bravo puntino sulla i: "nessuno si salva da solo", "la crisi della democrazia esige ancor più democrazia", "il lavoro non rappresenta esclusivamente la produzione", "le imprese hanno bisogno di più forza", e via discorrendo. Solo che, se uno cerca concretezza, trova nulla: non una cifra, non un dato, neppure le pagine sono numerate, per non aprire subliminalmente la porta al sospetto che, se qualcosa non è misurabile, non è neppure discutibile. Se mancano informazioni quantitative, però, non è solo sciatteria. E' anche perché l'ex ministro dello Sviluppo economico ha scientificamente eliminato qualunque oggetto che potesse essere tradotto in statistiche. Sicché, fa ancora più impressione l'assenza di parole chiave dell'attualità e persino della storia politica di Bersani. Mancano del tutto termini quali “privatizzazioni”, “spesa pubblica”, “debito pubblico”, e “liberalizzazioni”. Non parliamo di dettagli, ma di quattro temi centrali nella discussione sul ruolo dello Stato e il futuro del nostro Paese. Il programma di Renzi può piacere o non piacere; è esplicito su questo e reticente su quello; ma, insomma, dà un'idea chiara di quello che il "figlio coraggioso" potrebbe o vorrebbe fare. Invece, Bersani non ritiene necessario riflettere sui 33 mila euro di debito che gravano sul groppone di ogni italiano, inclusi neonati e ultracentenari. Siamo travolti da una crisi che il mondo chiama del "debito sovrano", ma si cincischia sull'uguaglianza come "ricetta economica per uscire dalla recessione" (Paul Krugman, tra gli altri, ritiene che la disuguaglianza non abbia nulla a che fare con la crisi, e quindi la sua riduzione, per quanto desiderabile, non può esserne la soluzione. Paul Krugman, non Milton Friedman). Se il segretario del Pd non affronta la questione nel programma, lo fa di fronte a una domanda precisa nel dibattito di mercoledì sera, e sceglie la via più facile: lo Stato torni a fare l'azionista pubblico cazzuto che difende i gioielli di famiglia, come Ansaldo Energia. L'importante è che non passi lo straniero, di debito ed efficienza chissenefrega. La spesa pubblica, che pure vale oltre il 50 per cento del Pil, non è a sua volta un problema: altro che spending review, basta e avanza una lisciata (ma non l'eliminazione, che tutti tengono famiglia) al finanziamento pubblico ai partiti. Le tasse, ça va sans dire, cresceranno: "si esce dalla crisi solo se chi ha di più è chiamato a dare di più. E chi ha di meno viene aiutato a migliorare le proprie condizioni di vita". A nessuno viene promesso che pagherà di meno, tranne il generico impegno ad abbassare il prelievo (di quanto? boh!) su lavoro e impresa per inasprirle su patrimoni finanziari e immobiliari.
Del resto, l'idea di #PB2013 - differentemente dall'uomo delle lenzuolate di cui ormai si smarrisce il ricordo - è che, se c'è qualcosa da fare, deve farlo lo Stato. Da azionista dove possibile. Da regolatore muscolare che mette in fila le imprese dove necessario. E da finanziatore, per interposta Cassa depositi e prestiti, in tutti gli altri casi. Non stupisce – ma meraviglia, se ci è consentito il paradosso - che l'alba della politica industriale bersaniana coincida col tramonto delle liberalizzazioni. Perché li-be-ra-liz-za-zio-ni è un vocabolo che non troverete nell'opuscolo, non rintraccerete nei discorsi, e che fa capolino nel dibattito solo per rivendicare interventi politici sui prezzi di alcuni servizi, che della concorrenza sono l'antitesi. Bersani ha imparato la lezione: questa volta, può contare sul voto dei tassisti.
Da Il Foglio del 30/11/2012 di Carlo Stagnaro e Luciano Capone
L'idea di #PB2013 - differentemente dall'uomo delle lenzuolate di cui ormai si smarrisce il ricordo - è che, se c'è qualcosa da fare, deve farla lo Stato.
Pier Luigi Bersani è un po' zio prudente, un po' nobile decaduto. Nel senso di Raffaello Mascetti, il conte di Amici Miei. Gli amici Melandri, Necchi e Perozzi cercano di convincerlo a trasferirsi in uno scantinato: “Ambiente unico, diviso in comparti mobili, come in Giappone. Stile moderno: pare che non c’è nulla e invece c’è tutto". E lui di rimando: "Pare che c’è tutto e invece non c’è nulla". Ecco, così è il suo programma. "Il coraggio dell'Italia" è un agile documento di sedici cartelle, ciascuna puntellata da uno slogan e ogni slogan col suo bravo puntino sulla i: "nessuno si salva da solo", "la crisi della democrazia esige ancor più democrazia", "il lavoro non rappresenta esclusivamente la produzione", "le imprese hanno bisogno di più forza", e via discorrendo. Solo che, se uno cerca concretezza, trova nulla: non una cifra, non un dato, neppure le pagine sono numerate, per non aprire subliminalmente la porta al sospetto che, se qualcosa non è misurabile, non è neppure discutibile. Se mancano informazioni quantitative, però, non è solo sciatteria. E' anche perché l'ex ministro dello Sviluppo economico ha scientificamente eliminato qualunque oggetto che potesse essere tradotto in statistiche. Sicché, fa ancora più impressione l'assenza di parole chiave dell'attualità e persino della storia politica di Bersani. Mancano del tutto termini quali “privatizzazioni”, “spesa pubblica”, “debito pubblico”, e “liberalizzazioni”. Non parliamo di dettagli, ma di quattro temi centrali nella discussione sul ruolo dello Stato e il futuro del nostro Paese. Il programma di Renzi può piacere o non piacere; è esplicito su questo e reticente su quello; ma, insomma, dà un'idea chiara di quello che il "figlio coraggioso" potrebbe o vorrebbe fare. Invece, Bersani non ritiene necessario riflettere sui 33 mila euro di debito che gravano sul groppone di ogni italiano, inclusi neonati e ultracentenari. Siamo travolti da una crisi che il mondo chiama del "debito sovrano", ma si cincischia sull'uguaglianza come "ricetta economica per uscire dalla recessione" (Paul Krugman, tra gli altri, ritiene che la disuguaglianza non abbia nulla a che fare con la crisi, e quindi la sua riduzione, per quanto desiderabile, non può esserne la soluzione. Paul Krugman, non Milton Friedman). Se il segretario del Pd non affronta la questione nel programma, lo fa di fronte a una domanda precisa nel dibattito di mercoledì sera, e sceglie la via più facile: lo Stato torni a fare l'azionista pubblico cazzuto che difende i gioielli di famiglia, come Ansaldo Energia. L'importante è che non passi lo straniero, di debito ed efficienza chissenefrega. La spesa pubblica, che pure vale oltre il 50 per cento del Pil, non è a sua volta un problema: altro che spending review, basta e avanza una lisciata (ma non l'eliminazione, che tutti tengono famiglia) al finanziamento pubblico ai partiti. Le tasse, ça va sans dire, cresceranno: "si esce dalla crisi solo se chi ha di più è chiamato a dare di più. E chi ha di meno viene aiutato a migliorare le proprie condizioni di vita". A nessuno viene promesso che pagherà di meno, tranne il generico impegno ad abbassare il prelievo (di quanto? boh!) su lavoro e impresa per inasprirle su patrimoni finanziari e immobiliari.
Del resto, l'idea di #PB2013 - differentemente dall'uomo delle lenzuolate di cui ormai si smarrisce il ricordo - è che, se c'è qualcosa da fare, deve farlo lo Stato. Da azionista dove possibile. Da regolatore muscolare che mette in fila le imprese dove necessario. E da finanziatore, per interposta Cassa depositi e prestiti, in tutti gli altri casi. Non stupisce – ma meraviglia, se ci è consentito il paradosso - che l'alba della politica industriale bersaniana coincida col tramonto delle liberalizzazioni. Perché li-be-ra-liz-za-zio-ni è un vocabolo che non troverete nell'opuscolo, non rintraccerete nei discorsi, e che fa capolino nel dibattito solo per rivendicare interventi politici sui prezzi di alcuni servizi, che della concorrenza sono l'antitesi. Bersani ha imparato la lezione: questa volta, può contare sul voto dei tassisti.
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