Avevo sopportato come meglio avevo potuto le mille e passa impertinenze di Fortunato. Ma giurai vendetta la prima volta ch'egli si lasciò andare ad un vero e proprio insulto. Voi che conoscete, ormai a fondo, la vera mia natura, non sarete per supporre, al certo, che io gli abbia mossa una qualche minaccia. Avrei avuta vendetta, infine: non vi poteva essere alcun dubbio attorno a ciò. E nondimeno lo stesso carattere intransigente della mia decisione escludeva qualsiasi idea di rischio. Non era soltanto necessario che io punissi, occorreva anche ch'io restassi impunito. Non è vera riparazione quella per cui il castigo viene poi a ricadere sulla medesima persona di colui che castiga. Al modo istesso che se il vendicatore manca di rivelarsi a colui che commise il torto.
È inteso, in tal modo, ch'io non avevo, né a parole né a fatti, fornita a Fortunato alcuna ragione per dubitare della mia benevolenza. Continuai, secondo era mia abitudine, a sorridergli e a lui non passò nemmeno per la mente ch'io sorridevo, adesso, soltanto al pensiero di sacrificarlo.
Aveva un debole - cotesto Fortunato, - pur s'egli era uomo da stimarsi, e anche da temersi, sotto tutti gli altri riguardi: si vantava d'essere un fine intenditore di vini. Ma italiani, veramente intenditori, ce n'è pochi. Il loro entusiasmo è tagliato su misura, il più delle volte, in ragione del tempo e dell'occasione, per quel tanto che basta, insomma, a imbrogliare i millionnaires inglesi o austriaci che sieno. Allo stesso modo, per quel che riguardava i quadri e i gioielli, questo Fortunato, come tutti i suoi compatrioti, del resto, era un vero ciarlatano. Ma per i vini era competente, ed in questo io non ero da meno di lui, dacché, in fatto di prodotti italiani, la sapevo lunga e ne acquistavo largamente ogni volta che me ne capitava l'occasione.
Una sera, all'imbrunire, proprio nei giorni in cui più infuriava il carnevale, m'imbattei nel mio amico. Egli mi venne incontro ostentando un'esagerata cordialità. Doveva aver bevuto assai. Era mascherato: indossava un costume attillato, a colori contrastanti e si era coperto il capo d'un cappello conico adorno di sonagli. Fui talmente felice d'incontrarlo, che non avrei più finito di torcergli la mano.
«Mio caro Fortunato», gli dissi, «v'incontro a proposito! Come state bene, oggi! Ma io, a dire il vero... a dire il vero ho ricevuto un barile che m'hanno garantito per Amontillado e... e... francamente... ho i mei dubbi ...».
«Come?», fece lui, «Amontillado? Un barile? È impossibile! E in pieno carnevale!».
«Ho i miei dubbi, infatti!», risposi. «E sono stato così sciocco che ho pagato tutt'intero il prezzo del barile senza prima consultarmi con voi. Vi ho cercato da per tutto, ma non sono riuscito a trovarvi, e d'altro canto non volevo perdere un'occasione simile...».
«Amontillado!».
«Ho i miei dubbi».
«Amontillado!».
«E debbo soddisfarli».
«Amontillado!».
«Dal momento che avete da fare, andrò a cercare Lucchesi. Se c'è qualcuno che sia provvisto di senso critico per tali faccende, quello è lui. Egli mi dirà...».
«Siete matto? Lucchesi non è buono a distinguere l'Amontillado dallo Xeres!».
«E nondimeno taluni imbecilli presumono che egli ne sappia quanto voi».
«Andiamo!».
«Dove?».
«Alle vostre cantine!».
«Ma no, amico mio. Non voglio approfittare di voi. Vedo che siete impegnato. Del resto Lucchesi...».
«Non ho alcun impegno. Andiamo!».
«No, no, amico mio. Non è tanto per l'impegno, quanto per l'infreddatura che, come mi sono accorto, vi affligge. Senza contare che le cantine si trovano a essere terribilmente umide, tutte incrostate di nitro come sono!».
«Andiamo! Non importa! L'infreddatura è roba da nulla. Amontillado! Ve l'hanno data a intendere! E quanto a Lucchesi, egli non è buono a distinguere lo Xeres dall'Amontillado...».
Mentre che così stavamo discorrendo, Fortunato mi prese sotto il braccio. Ed io, dopo essermi messo sul viso una maschera di seta nera, e avviluppato che fui nel mio mantello, lasciai ch'egli mi trascinasse al mio palazzo.
Non c'erano servi in casa. Erano tutti usciti per darsi al bel tempo in onore della stagione. Li avevo ammoniti categoricamente a non muoversi per il fatto, appunto, che non sarei tornato prima del mattino, ed era stato sufficiente quell'ordine, lo sapevo, per garantirmi che tutti, dal primo all'ultimo, sarebbero scomparsi non appena avessi voltate le spalle.
Tolsi due torce su dai loro bracci e ne porsi una a Fortunato. M'inchinai più volte, poi, per fargli strada sino all'androne che immetteva nelle cantine. Lo condussi giù per una lunga e tortuosa scala, raccomandandogli d'esser cauto nel seguirmi. Arrivati che fummo in fondo, ci trovammo sul suolo umido delle catacombe dei Montrésors.
Fortunato si reggeva malamente sulle gambe, ed i sonagli del suo berretto tintinnavano ad ognuno dei suoi passi.
«E il barile?», chiese.
«È più in là», diss'io. «Ma guardate le pareti di questa cantina. Non vedete come lustrano di bianco?».
Si volse a guardarmi negli occhi col suoi due globi appannati che distillavano l'umore dell'ebrietà.
«Il nitro?», chiese alfine.
«Nitro!», diss'io. «Da quanto siete afflitto da questa tosse?».
Fortunato, infatti, era stato preso da un accesso di colpi di tosse e, per alcuni minuti, non gli riuscì di rispondere.
«Non è nulla», disse infine.
«Venite», diss'io con risolutezza, «torniamo via... la vostra salute è preziosa. Voi siete ricco, rispettato, amato, ammirato... siete felice com'io lo fui un tempo. Dovete risparmiarvi! Quanto a me, non ho fretta. Andiamo via... Non voglio avere nessuna responsabilità nel caso che vi ammaliate... del resto c'è Lucchesi...».
«Basta, basta!», esclamò. «La tosse non vuol dire niente. Non morirò davvero! Avete mai inteso dire di qualcuno che sia morto per la tosse?...».
«È vero», dissi, «è vero... è vero... Non avevo alcuna intenzione d'allarmarvi senza bisogno. Ma dovreste prendere alcune precauzioni. Ecco... un sorso di questo Médoc vi proteggerà dagli effetti nefasti dell'umidità...».
E in così dire, feci saltare il tappo a una bottiglia che afferrai di su una lunga fila di consimili, coricate tutte sulla muffa del suolo.
«Bevete!», dissi porgendogliela.
Il mio amico Fortunato si portò la bottiglia alle labbra sogguardandomi con la coda dell'occhio. Indi si fermò e, ammiccando familiarmente col capo verso di me, cosicché i sonagli tintinnarono:
«Bevo», disse, «ai defunti che riposano intorno a noi!».
«Ed io bevo, per contro, alla vostra salute!».
Mi prese quindi, nuovamente, sottobraccio, e riprendemmo il nostro cammino.
«Queste cantine», osservò a un tratto, «sono molto vaste...».
«I Montrésors», risposi, «erano una grande e numerosa famiglia...».
«Ho dimenticato qual è il vostro stemma».
«Un piede umano d'oro, in campo azzurro, che schiaccia un serpe rampante il quale infigge i denti nel tallone».
«E il motto?».
«Nemo me impune lacessit».
«Bene!», disse.
Nei suoi occhi scintillava il vino, e i sonagli tintinnavano. Il Médoc aveva eccitata anche la mia immaginazione. Attraversammo alcune pareti di ossa ammonticchiate, di barili e trombe da vino e penetrammo nei recessi più fondi delle catacombe. M'arrestai nuovamente, e spinsi stavolta la mia audacia fino a prendere Fortunato per un braccio, un po' più su del gomito.
«Il nitro», dissi, «come vedete, in questo luogo aumenta. Pende dalle vòlte come se fosse muschio. Noi siamo sotto il letto del fiume. Le gocciole d'umidità filtrano attraverso le ossa degli scheletri. Suvvia, andiamocene, innanzi che sia troppo tardi... la vostra tosse...».
«Non è nulla!», diss'egli. «Tiriamo avanti! Prima, però, un altro sorso di Médoc!».
Stappai una piccola bottiglia di De Grâve, invece, e gliela porsi: la vuotò d'un sol fiato. I suoi occhi mandavano fiamme, in quel punto. Scoppiò a ridere e scagliò la bottiglia in aria affettando un gesto ch'io per la verità non riuscii a capire.
Lo guardai meravigliato, ed egli ripeté quel gesto del quale non saprei dire altro se non che era grottesco.
«Non avete capito?», chiese.
«No», risposi.
«Non siete della loggia, allora!».
«Sarebbe a dire?».
«Non siete massone, dico».
«Oh! Sì, sì,... sì,... sì ...», dissi.
«Voi? Impossibile! Massone voi?».
«Sì, sono massone», risposi.
«Un segno», disse lui.
«Eccolo!», esclamai traendo una cazzuola fuor dalle pieghe del mio ferraiolo.
«Siete in vena di scherzare!», disse Fortunato indietreggiando di qualche passo. «Suvvia, andiamo a vedere questo Amontillado».
«E sia!», dissi infine, riponendo quell'arnese sotto al ferraiolo e offrendogli nuovamente il braccio. Egli vi si appoggiò pesantemente e riprendemmo il nostro caminino in cerca dell'Amontillado. Passammo sotto una fila di basse arcate, scendemmo qualche gradino, proseguimmo per un tratto, scendemmo ancora, fintanto che non arrivammo a una cripta profonda, dove, per l'aria impura che vi stagnava, le nostre torce rosseggiarono più che non risplendessero.
In fondo a cotesta cripta, un'altra ne appariva, meno vasta, le cui pareti erano state rivestite d'ossa umane, le une sull'altre ammassate, fino a toccar la vòlta, come si vede nelle catacombe di Parigi. Tre lati di cotesta cripta erano in siffatta maniera adornati ma, dal quarto, le ossa erano state tolte via e gettate a terra, dove formavano un mucchio d'una certa altezza. Al di là del muro, rimasto in tal modo allo scoperto, era possibile vedere una terza cripta, la cui profondità non superava i quattro piedi, la cui larghezza tre all'incirca, e sei o sette l'altezza. Essa non pareva costruita ad alcun fine particolare ma semplicemente come un intervallo tra due enormi pilastri ai quali era commesso il compito di sostener la vòlta delle catacombe e s'addossava a uno dei loro solidi muri terminali.
Fu invano che Fortunato, levando alta la sua torcia infoschita, tentò di vedere nella tenebria di quel recesso. La luce era così scarsa che non ne poté distinguere il fondo.
«Avanti!», diss'io. «L'Amontillado è là. Quanto a Lucchesi...».
«È un ignorante!», interruppe il mio amico e andò innanzi per primo, barcollando, seguito immediatamente da me. Egli era arrivato, in un istante, all'estremità della cella e, come si vide sbarrare il cammino dalla parete di roccia, si fermò confuso e meravigliato. L'istante appresso era stato sufficiente perch'io lo incatenassi al granito. Infissi a questo, c'erano due uncini di ferro, i quali distavano l'uno dall'altro un due piedi all'incirca, in linea orizzontale. Una catena pendeva dall'uno, un catenaccio dall'altro. Circondare la vita di Fortunato colla catena e quindi assicurarla, fu per me, come ho detto, questione d'un solo istante. Egli era troppo meravigliato perché potesse organizzare una resistenza. Tratta che ebbi la chiave fuor dal catenaccio, uscii a parte dietro dalla cella.
«Toccate il muro colla mano», dissi, «e sentirete il nitro. È molto umido in questo luogo. Sarà meglio che torniate indietro. Ve ne scongiuro un'ultima volta. Come? Volete restare? In questo caso è necessario ch'io vi lasci... e nondimeno vi prodigherò, innanzi che me ne vada, tutte le attenzioni che posso...».
«L'Amontillado!», mormorò il mio amico che ancora non s'era rimesso dalla meraviglia.
«Già», dissi. «Già... l'Amontillado...».
E mentr'io diceva queste parole, mi ponevo a lavorare nel mucchio di scheletri di cui ho già parlato. Buttai le ossa da un canto fintantoché non venne allo scoperto una certa quantità di pietra da costruzione e di calcina. Con l'aiuto della cazzuola, e con quei materiali, mi diedi alacremente a murare l'entrata della cella.
Sistemato che ebbi il primo strato della muratura, dovetti accorgermi che l'ebbrezza di Fortunato era per gran parte svaporata, ed il primo segnale me ne venne da un gemito sordo che si levò, come a fatica, dal fondo della cella. Esso non era il grido d'un ubriaco! A quello seguì un prolungato e ostinato silenzio. Ne approfittai per sistemare il secondo strato, e poi il terzo, e il quarto. Fu a questo punto che sentii scuotere con rabbia la catena. Quel rumore si protrasse alcuni minuti, ed io sospesi il lavoro per poterne godere più a mio agio. Anzi, mi misi addirittura a sedere tra gli ossami. Come poi lo strepito si fu quietato, ripresi la cazzuola e sistemai il quinto, il sesto e il settimo strato senza più interrompermi. Il muro era giunto così fin quasi all'altezza del mio petto. A questo punto mi fermai di nuovo e levai alta la torcia, e gettai un barlume di luce velata sul prigioniero.
Una successione d'alte e acute strida scaturì allora dalla gola di quella forma incatenata, ed ebbi la sensazione che esse mi volessero spingere violentemente indietro. Esitai infatti, e mi lasciai prendere da un cotale tremore: ma fu l'affare d'un solo istante. Trassi fuori il mio stocco e mi diedi a frugare dentro la cella. Un minuto di riflessione fu sufficiente a rassicurarmi. Poggiai le mani sulla massiccia parete della catacomba e me le ritrassi soddisfatto. Tornai, così, al mio muro e, alle strida ch'egli mandava sempre più alte e disperate, replicavo con altrettante, le riecheggiavo, le accompagnavo e le superavo, infine, per volume e per forza. Così mi tenni e quegli s'azzittò.
Venne mezzanotte e l'opera mia era per giungere al suo compimento. Avevo finito di sistemare l'ottavo, il nono e il decimo strato, e già ero sul punto di finir l'undecimo, che sarebbe anche stato l'ultimo: perché esso fosse compiuto, non restava che una pietra da porre, e, infine, da murare. Era pesante, quella pietra, e la sollevai con sforzo. Poi cominciai ad adattarla al suo posto. Ed ecco che dalla cella scaturì una sorta di riso che mi fece drizzare i capelli sul capo, e ad esso seguì una mesta voce ch'io non riuscivo a riconoscere per quella già appartenuta al nobile Fortunato.
«Ah! ah!... eh! eh!... uno scherzo davvero magnifico, per esser sinceri!...», intesi che quella voce diceva. «Un'eccellente burla! Ne avremo da ridere a palazzo!... eh, eh!... il nostro vino... eh! eh! ...».
«L'Amontillado!», fec'io.
«Eh! eh!... eh! eh!... ma certo, l'Amontillado! Non si farà tardi? E non saranno impazienti, a palazzo, la signora Fortunato e gli altri? Suvvia, andiamo...».
«Va bene. Andiamo».
«Per l'amor di Dio, Montrésor!».
«Proprio così. Per l'amor di Dio!».
E a queste parole io attesi invano, coll'orecchio teso, nel silenzio profondo che s'era fatto improvviso, una risposta. Mi spazientii. Chiamai ad alta voce:
«Fortunato!».
Ma non ebbi risposta. Chiamai di nuovo:
«Fortunato!».
Nessuna risposta ancora. Infilai una torcia nell'apertura che ancora restava da chiudere e poi ve la lasciai cadere. Di là non rispose che un tintinnio di sonagli. Sentii quasi mancarmi, ma non v'ha dubbio che ciò fosse dovuto all'umidità di cui trasudavano le catacombe. Mi sbrigai a finire l'opera mia. Spinsi l'ultima pietra al suo posto e ve la murai. Di contro il nuovo muro che avevo in tal modo innalzato, sistemai il baluardo di scheletri che v'era stato distolto e che ancora - dopo mezzo secolo! - nessun mortale ha rimosso. In pace requiescat!
È inteso, in tal modo, ch'io non avevo, né a parole né a fatti, fornita a Fortunato alcuna ragione per dubitare della mia benevolenza. Continuai, secondo era mia abitudine, a sorridergli e a lui non passò nemmeno per la mente ch'io sorridevo, adesso, soltanto al pensiero di sacrificarlo.
Aveva un debole - cotesto Fortunato, - pur s'egli era uomo da stimarsi, e anche da temersi, sotto tutti gli altri riguardi: si vantava d'essere un fine intenditore di vini. Ma italiani, veramente intenditori, ce n'è pochi. Il loro entusiasmo è tagliato su misura, il più delle volte, in ragione del tempo e dell'occasione, per quel tanto che basta, insomma, a imbrogliare i millionnaires inglesi o austriaci che sieno. Allo stesso modo, per quel che riguardava i quadri e i gioielli, questo Fortunato, come tutti i suoi compatrioti, del resto, era un vero ciarlatano. Ma per i vini era competente, ed in questo io non ero da meno di lui, dacché, in fatto di prodotti italiani, la sapevo lunga e ne acquistavo largamente ogni volta che me ne capitava l'occasione.
Una sera, all'imbrunire, proprio nei giorni in cui più infuriava il carnevale, m'imbattei nel mio amico. Egli mi venne incontro ostentando un'esagerata cordialità. Doveva aver bevuto assai. Era mascherato: indossava un costume attillato, a colori contrastanti e si era coperto il capo d'un cappello conico adorno di sonagli. Fui talmente felice d'incontrarlo, che non avrei più finito di torcergli la mano.
«Mio caro Fortunato», gli dissi, «v'incontro a proposito! Come state bene, oggi! Ma io, a dire il vero... a dire il vero ho ricevuto un barile che m'hanno garantito per Amontillado e... e... francamente... ho i mei dubbi ...».
«Come?», fece lui, «Amontillado? Un barile? È impossibile! E in pieno carnevale!».
«Ho i miei dubbi, infatti!», risposi. «E sono stato così sciocco che ho pagato tutt'intero il prezzo del barile senza prima consultarmi con voi. Vi ho cercato da per tutto, ma non sono riuscito a trovarvi, e d'altro canto non volevo perdere un'occasione simile...».
«Amontillado!».
«Ho i miei dubbi».
«Amontillado!».
«E debbo soddisfarli».
«Amontillado!».
«Dal momento che avete da fare, andrò a cercare Lucchesi. Se c'è qualcuno che sia provvisto di senso critico per tali faccende, quello è lui. Egli mi dirà...».
«Siete matto? Lucchesi non è buono a distinguere l'Amontillado dallo Xeres!».
«E nondimeno taluni imbecilli presumono che egli ne sappia quanto voi».
«Andiamo!».
«Dove?».
«Alle vostre cantine!».
«Ma no, amico mio. Non voglio approfittare di voi. Vedo che siete impegnato. Del resto Lucchesi...».
«Non ho alcun impegno. Andiamo!».
«No, no, amico mio. Non è tanto per l'impegno, quanto per l'infreddatura che, come mi sono accorto, vi affligge. Senza contare che le cantine si trovano a essere terribilmente umide, tutte incrostate di nitro come sono!».
«Andiamo! Non importa! L'infreddatura è roba da nulla. Amontillado! Ve l'hanno data a intendere! E quanto a Lucchesi, egli non è buono a distinguere lo Xeres dall'Amontillado...».
Mentre che così stavamo discorrendo, Fortunato mi prese sotto il braccio. Ed io, dopo essermi messo sul viso una maschera di seta nera, e avviluppato che fui nel mio mantello, lasciai ch'egli mi trascinasse al mio palazzo.
Non c'erano servi in casa. Erano tutti usciti per darsi al bel tempo in onore della stagione. Li avevo ammoniti categoricamente a non muoversi per il fatto, appunto, che non sarei tornato prima del mattino, ed era stato sufficiente quell'ordine, lo sapevo, per garantirmi che tutti, dal primo all'ultimo, sarebbero scomparsi non appena avessi voltate le spalle.
Tolsi due torce su dai loro bracci e ne porsi una a Fortunato. M'inchinai più volte, poi, per fargli strada sino all'androne che immetteva nelle cantine. Lo condussi giù per una lunga e tortuosa scala, raccomandandogli d'esser cauto nel seguirmi. Arrivati che fummo in fondo, ci trovammo sul suolo umido delle catacombe dei Montrésors.
Fortunato si reggeva malamente sulle gambe, ed i sonagli del suo berretto tintinnavano ad ognuno dei suoi passi.
«E il barile?», chiese.
«È più in là», diss'io. «Ma guardate le pareti di questa cantina. Non vedete come lustrano di bianco?».
Si volse a guardarmi negli occhi col suoi due globi appannati che distillavano l'umore dell'ebrietà.
«Il nitro?», chiese alfine.
«Nitro!», diss'io. «Da quanto siete afflitto da questa tosse?».
Fortunato, infatti, era stato preso da un accesso di colpi di tosse e, per alcuni minuti, non gli riuscì di rispondere.
«Non è nulla», disse infine.
«Venite», diss'io con risolutezza, «torniamo via... la vostra salute è preziosa. Voi siete ricco, rispettato, amato, ammirato... siete felice com'io lo fui un tempo. Dovete risparmiarvi! Quanto a me, non ho fretta. Andiamo via... Non voglio avere nessuna responsabilità nel caso che vi ammaliate... del resto c'è Lucchesi...».
«Basta, basta!», esclamò. «La tosse non vuol dire niente. Non morirò davvero! Avete mai inteso dire di qualcuno che sia morto per la tosse?...».
«È vero», dissi, «è vero... è vero... Non avevo alcuna intenzione d'allarmarvi senza bisogno. Ma dovreste prendere alcune precauzioni. Ecco... un sorso di questo Médoc vi proteggerà dagli effetti nefasti dell'umidità...».
E in così dire, feci saltare il tappo a una bottiglia che afferrai di su una lunga fila di consimili, coricate tutte sulla muffa del suolo.
«Bevete!», dissi porgendogliela.
Il mio amico Fortunato si portò la bottiglia alle labbra sogguardandomi con la coda dell'occhio. Indi si fermò e, ammiccando familiarmente col capo verso di me, cosicché i sonagli tintinnarono:
«Bevo», disse, «ai defunti che riposano intorno a noi!».
«Ed io bevo, per contro, alla vostra salute!».
Mi prese quindi, nuovamente, sottobraccio, e riprendemmo il nostro cammino.
«Queste cantine», osservò a un tratto, «sono molto vaste...».
«I Montrésors», risposi, «erano una grande e numerosa famiglia...».
«Ho dimenticato qual è il vostro stemma».
«Un piede umano d'oro, in campo azzurro, che schiaccia un serpe rampante il quale infigge i denti nel tallone».
«E il motto?».
«Nemo me impune lacessit».
«Bene!», disse.
Nei suoi occhi scintillava il vino, e i sonagli tintinnavano. Il Médoc aveva eccitata anche la mia immaginazione. Attraversammo alcune pareti di ossa ammonticchiate, di barili e trombe da vino e penetrammo nei recessi più fondi delle catacombe. M'arrestai nuovamente, e spinsi stavolta la mia audacia fino a prendere Fortunato per un braccio, un po' più su del gomito.
«Il nitro», dissi, «come vedete, in questo luogo aumenta. Pende dalle vòlte come se fosse muschio. Noi siamo sotto il letto del fiume. Le gocciole d'umidità filtrano attraverso le ossa degli scheletri. Suvvia, andiamocene, innanzi che sia troppo tardi... la vostra tosse...».
«Non è nulla!», diss'egli. «Tiriamo avanti! Prima, però, un altro sorso di Médoc!».
Stappai una piccola bottiglia di De Grâve, invece, e gliela porsi: la vuotò d'un sol fiato. I suoi occhi mandavano fiamme, in quel punto. Scoppiò a ridere e scagliò la bottiglia in aria affettando un gesto ch'io per la verità non riuscii a capire.
Lo guardai meravigliato, ed egli ripeté quel gesto del quale non saprei dire altro se non che era grottesco.
«Non avete capito?», chiese.
«No», risposi.
«Non siete della loggia, allora!».
«Sarebbe a dire?».
«Non siete massone, dico».
«Oh! Sì, sì,... sì,... sì ...», dissi.
«Voi? Impossibile! Massone voi?».
«Sì, sono massone», risposi.
«Un segno», disse lui.
«Eccolo!», esclamai traendo una cazzuola fuor dalle pieghe del mio ferraiolo.
«Siete in vena di scherzare!», disse Fortunato indietreggiando di qualche passo. «Suvvia, andiamo a vedere questo Amontillado».
«E sia!», dissi infine, riponendo quell'arnese sotto al ferraiolo e offrendogli nuovamente il braccio. Egli vi si appoggiò pesantemente e riprendemmo il nostro caminino in cerca dell'Amontillado. Passammo sotto una fila di basse arcate, scendemmo qualche gradino, proseguimmo per un tratto, scendemmo ancora, fintanto che non arrivammo a una cripta profonda, dove, per l'aria impura che vi stagnava, le nostre torce rosseggiarono più che non risplendessero.
In fondo a cotesta cripta, un'altra ne appariva, meno vasta, le cui pareti erano state rivestite d'ossa umane, le une sull'altre ammassate, fino a toccar la vòlta, come si vede nelle catacombe di Parigi. Tre lati di cotesta cripta erano in siffatta maniera adornati ma, dal quarto, le ossa erano state tolte via e gettate a terra, dove formavano un mucchio d'una certa altezza. Al di là del muro, rimasto in tal modo allo scoperto, era possibile vedere una terza cripta, la cui profondità non superava i quattro piedi, la cui larghezza tre all'incirca, e sei o sette l'altezza. Essa non pareva costruita ad alcun fine particolare ma semplicemente come un intervallo tra due enormi pilastri ai quali era commesso il compito di sostener la vòlta delle catacombe e s'addossava a uno dei loro solidi muri terminali.
Fu invano che Fortunato, levando alta la sua torcia infoschita, tentò di vedere nella tenebria di quel recesso. La luce era così scarsa che non ne poté distinguere il fondo.
«Avanti!», diss'io. «L'Amontillado è là. Quanto a Lucchesi...».
«È un ignorante!», interruppe il mio amico e andò innanzi per primo, barcollando, seguito immediatamente da me. Egli era arrivato, in un istante, all'estremità della cella e, come si vide sbarrare il cammino dalla parete di roccia, si fermò confuso e meravigliato. L'istante appresso era stato sufficiente perch'io lo incatenassi al granito. Infissi a questo, c'erano due uncini di ferro, i quali distavano l'uno dall'altro un due piedi all'incirca, in linea orizzontale. Una catena pendeva dall'uno, un catenaccio dall'altro. Circondare la vita di Fortunato colla catena e quindi assicurarla, fu per me, come ho detto, questione d'un solo istante. Egli era troppo meravigliato perché potesse organizzare una resistenza. Tratta che ebbi la chiave fuor dal catenaccio, uscii a parte dietro dalla cella.
«Toccate il muro colla mano», dissi, «e sentirete il nitro. È molto umido in questo luogo. Sarà meglio che torniate indietro. Ve ne scongiuro un'ultima volta. Come? Volete restare? In questo caso è necessario ch'io vi lasci... e nondimeno vi prodigherò, innanzi che me ne vada, tutte le attenzioni che posso...».
«L'Amontillado!», mormorò il mio amico che ancora non s'era rimesso dalla meraviglia.
«Già», dissi. «Già... l'Amontillado...».
E mentr'io diceva queste parole, mi ponevo a lavorare nel mucchio di scheletri di cui ho già parlato. Buttai le ossa da un canto fintantoché non venne allo scoperto una certa quantità di pietra da costruzione e di calcina. Con l'aiuto della cazzuola, e con quei materiali, mi diedi alacremente a murare l'entrata della cella.
Sistemato che ebbi il primo strato della muratura, dovetti accorgermi che l'ebbrezza di Fortunato era per gran parte svaporata, ed il primo segnale me ne venne da un gemito sordo che si levò, come a fatica, dal fondo della cella. Esso non era il grido d'un ubriaco! A quello seguì un prolungato e ostinato silenzio. Ne approfittai per sistemare il secondo strato, e poi il terzo, e il quarto. Fu a questo punto che sentii scuotere con rabbia la catena. Quel rumore si protrasse alcuni minuti, ed io sospesi il lavoro per poterne godere più a mio agio. Anzi, mi misi addirittura a sedere tra gli ossami. Come poi lo strepito si fu quietato, ripresi la cazzuola e sistemai il quinto, il sesto e il settimo strato senza più interrompermi. Il muro era giunto così fin quasi all'altezza del mio petto. A questo punto mi fermai di nuovo e levai alta la torcia, e gettai un barlume di luce velata sul prigioniero.
Una successione d'alte e acute strida scaturì allora dalla gola di quella forma incatenata, ed ebbi la sensazione che esse mi volessero spingere violentemente indietro. Esitai infatti, e mi lasciai prendere da un cotale tremore: ma fu l'affare d'un solo istante. Trassi fuori il mio stocco e mi diedi a frugare dentro la cella. Un minuto di riflessione fu sufficiente a rassicurarmi. Poggiai le mani sulla massiccia parete della catacomba e me le ritrassi soddisfatto. Tornai, così, al mio muro e, alle strida ch'egli mandava sempre più alte e disperate, replicavo con altrettante, le riecheggiavo, le accompagnavo e le superavo, infine, per volume e per forza. Così mi tenni e quegli s'azzittò.
Venne mezzanotte e l'opera mia era per giungere al suo compimento. Avevo finito di sistemare l'ottavo, il nono e il decimo strato, e già ero sul punto di finir l'undecimo, che sarebbe anche stato l'ultimo: perché esso fosse compiuto, non restava che una pietra da porre, e, infine, da murare. Era pesante, quella pietra, e la sollevai con sforzo. Poi cominciai ad adattarla al suo posto. Ed ecco che dalla cella scaturì una sorta di riso che mi fece drizzare i capelli sul capo, e ad esso seguì una mesta voce ch'io non riuscivo a riconoscere per quella già appartenuta al nobile Fortunato.
«Ah! ah!... eh! eh!... uno scherzo davvero magnifico, per esser sinceri!...», intesi che quella voce diceva. «Un'eccellente burla! Ne avremo da ridere a palazzo!... eh, eh!... il nostro vino... eh! eh! ...».
«L'Amontillado!», fec'io.
«Eh! eh!... eh! eh!... ma certo, l'Amontillado! Non si farà tardi? E non saranno impazienti, a palazzo, la signora Fortunato e gli altri? Suvvia, andiamo...».
«Va bene. Andiamo».
«Per l'amor di Dio, Montrésor!».
«Proprio così. Per l'amor di Dio!».
E a queste parole io attesi invano, coll'orecchio teso, nel silenzio profondo che s'era fatto improvviso, una risposta. Mi spazientii. Chiamai ad alta voce:
«Fortunato!».
Ma non ebbi risposta. Chiamai di nuovo:
«Fortunato!».
Nessuna risposta ancora. Infilai una torcia nell'apertura che ancora restava da chiudere e poi ve la lasciai cadere. Di là non rispose che un tintinnio di sonagli. Sentii quasi mancarmi, ma non v'ha dubbio che ciò fosse dovuto all'umidità di cui trasudavano le catacombe. Mi sbrigai a finire l'opera mia. Spinsi l'ultima pietra al suo posto e ve la murai. Di contro il nuovo muro che avevo in tal modo innalzato, sistemai il baluardo di scheletri che v'era stato distolto e che ancora - dopo mezzo secolo! - nessun mortale ha rimosso. In pace requiescat!
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