Il giardino aveva forma di dama leggiadra
Che giacesse in estatico sopore,
Con gli occhi chiusi ai cieli spalancati.
Nitidi i campi dell'Azzurro orlavano
Un ampio cerchio di fiori di luce.
I fiordalisi e i globi scintillanti
Della rugiada, penduli sui loro
Petali azzurri, apparivano quali
Luci palpitanti di stelle nel blu della sera.
Giles Fletcher
Una ventata di prosperità accompagnò dalla culla alla tomba il mio amico Ellison. E non uso la parola «prosperità» in senso meramente mondano. La intendo come sinonimo di felicità. La persona di cui parlo sembrava nata per prefigurare le dottrine di Turgot, di Price, di Priestley e di Condorcet: per esemplificare con un'esperienza personale quella che è stata ritenuta la chimera dei perfezionisti. Nella breve esistenza di Ellison - tale è la mia impressione - ho veduto la confutazione del dogma secondo cui nella stessa natura umana sia insito un qualche principio occulto contrario alla felicità. Un attento studio della sua esperienza di vita mi ha portato a comprendere che, in generale, le miserie dell'umana specie derivino dalla violazione di certe semplici leggi umane (ché, in quanto specie, possediamo, ancora intatti, gli elementi essenziali della felicità), e che anche adesso, nella presente confusione e follia del pensiero circa il grande problema della condizione sociale, non è impossibile che l'uomo, l'individuo, in certe condizioni insolite ed estremamente fortuite, possa essere felice.
Anche il mio giovane amico era imbevuto di simili opinioni, per cui vale la pena di osservare che l'ininterrotta prosperità che caratterizzava la sua vita fu in ampia misura il risultato di un preordinato sistema. È infatti evidente che, senza quella filosofia istintiva che di quando in quando sostituisce così bene l'esperienza, sarebbe precipitato, proprio a causa del più che straordinario successo della sua vita, nel consueto vortice di infelicità che si spalanca davanti a chi la sorte favorisce di doti superiori. Ma non è affatto mia intenzione scrivere un trattato sulla felicità. Le idee del mio amico possono essere riassunte in poche parole. Egli ammetteva soltanto quattro princìpi-base o, più precisamente, condizioni di felicità assoluta. Quella che considerava la principale era (strano a dirsi!) di natura semplicissima e puramente fisica: fare del moto all'aria aperta. «La salute», diceva, «che si ottiene con altri mezzi non è neppure degna di questo nome».
E portava ad esempio le ebbrezze della caccia alla volpe e vedeva nei coltivatori della terra le sole persone che, in quanto classe, possono a ragione esser considerate più felici delle altre. La seconda condizione era l'amore di una donna. La terza, la più difficile da realizzare, era il disdegno dell'ambizione. La quarta, una meta incessantemente perseguita; ed egli sosteneva che, a pari condizioni, la misura della felicità conseguibile fosse proporzionata alla spiritualità di tale meta.
Ellison si distingueva per la profusione dei doni continuamente prodigatigli dalla fortuna. Non v'era uomo che lo superasse per grazia e bellezza della persona. La sua intelligenza era una di quelle per cui l'acquisizione del sapere costituisce, più che una fatica, un'intuizione e una necessità. La sua famiglia era tra le più illustri dell'impero, sua moglie la più leggiadra e devota delle donne. I suoi beni erano sempre stati cospicui, ma quando ebbe raggiunto la maggiore età, si scoprì che aveva beneficiato di uno di quegli straordinari capricci del destino che lasciano sbalordita tutta quanta la società in cui si producono e non mancano, quasi mai di mutare radicalmente il carattere morale di coloro che ne sono l'oggetto.
Pare che un centinaio d'anni prima che Mr. Ellison divenisse maggiorenne, fosse morto in una provincia remota un certo Seabright Ellison. Questo signore aveva accumulato una fortuna principesca e, non avendo parenti prossimi, si concesse il capriccio di lasciare ammassare tale ricchezza per un secolo dopo la sua morte. Amministrando con minuzia e sagacia le varie forme di investimento, dispose nel suo testamento che l'intero patrimonio andasse al più stretto consanguineo di nome Ellison che fosse vivo allo scadere dei cent'anni. Si erano fatti molti tentativi per impugnare questo singolare testamento, ma trattandosi di un ex post facto, riuscirono tutti infruttuosi; tuttavia la cosa non mancò di destare l'attenzione di un governo sospettoso, e infine venne passato un decreto che vietava per l'avvenire ogni analogo accumularsi di ricchezze. Questo atto legislativo non impedì comunque al giovane Ellison di entrare in possesso, al suo ventunesimo compleanno, quale erede del suo antenato Seabright, di una fortuna di quattrocentocinquanta milioni di dollari.
Quando si seppe che a tanto ammontava l'enorme ricchezza ereditata, si fecero, naturalmente, numerose congetture sul suo possibile impiego. L'enormità e la disponibilità immediata della somma sconcertavano tutti quelli che affrontavano tale questione. Si poteva facilmente immaginare che il possessore di un'apprezzabile quantità di denaro facesse una qualunque delle tante, delle mille cose possibili . Se le sue ricchezze fossero state semplicemente superiori a quelle di ogni altro privato, sarebbe stato facile supporre che egli si abbandonasse alle smodate stravaganze in voga al suo tempo: che, cioè, si desse agli intrighi politici, o ambisse a una carica ministeriale, o si procurasse un titolo nobiliare, o, ancora, collezionasse pezzi da museo, o si atteggiasse a munifico patrono delle lettere, della scienza, dell'arte... o promuovesse, battezzandole col suo nome, grandi fondazioni benefiche. Ma per la ricchezza inconcepibile che si trovava a possedere l'erede, questi scopi, e tutti gli scopi normali, costituivano evidentemente un campo troppo ristretto. Si ricorse ai calcoli, e questi non fecero che accrescere la confusione. Si vide che anche al tre per cento, l'introito annuo dell'eredità ammontava a non meno di tredici milioni e cinquecentomila dollari; il che significava un milione e centoventicinquemila dollari al mese, trentaseimilanovecentottantasei al giorno, millecinquecentoquarantuno all'ora e ventisei per ogni minuto che passava. Così il corso normale delle supposizioni era completamente sovvertito. La gente non sapeva cosa inventare. Alcuni arrivarono persino a immaginare che il signor Ellison rinunciasse ad almeno metà della sua fortuna come a cosa per lui assolutamente superflua, arricchendo folle di parenti mediante una divisione di così soverchia abbondanza. Ai più prossimi fra essi lasciò in effetti il già cospicuo patrimonio da lui posseduto prima dell'eredità. Non fui sorpreso tuttavia di vedere che già da tempo aveva preso una ferma decisione su un punto che tante discussioni aveva suscitato fra i suoi amici. Né fui gran che stupito del carattere di tale decisione. Per quel che riguardava la beneficenza individuale, la sua coscienza era tranquilla. Quanto poi alla possibilità che un solo uomo riuscisse a operare un qualsiasi progresso, nel senso vero della parola, interessante la condizione umana, era (mi dispiace confessarlo) alquanto scettico. Tutto sommato, bene o male che fosse, si concentrò quasi esclusivamente su se stesso.
Era, nel senso più vasto e più nobile del termine, un poeta. Non solo, ma comprendeva in sé il vero carattere, gli scopi augusti, la suprema maestà e dignità del sentimento poetico. Sentiva istintivamente che l'appagamento più pieno, se non proprio l'unico, di questo sentimento consisteva nella creazione di nuove forme di bellezza. Alcune peculiarità, o dei suoi studi giovanili o della natura del suo intelletto, avevano dato alle sue speculazioni etiche una certa sfumatura di ciò che si suol definire materialismo; e fu forse questa sua propensione a indurlo a credere che il campo più proficuo, se non addirittura il solo legittimo, al manifestarsi dell'esercizio poetico, sia quello della creazione di nuove forme di bellezza puramente fisica. Così accadde che egli non divenne né musicista né poeta, se vogliamo usare questa parola nella sua accezione consueta. O forse egli non si curò di diventare né l'uno né l'altro (anche questo è possibile), solo per attenersi alla sua idea che nel disdegno dell'ambizione risieda uno dei princìpi essenziali della felicità su questa terra? Non può darsi, in effetti, che mentre i geni di ordine superiore sono necessariamente ambiziosi, quelli di ordine ancora più elevato siano al di sopra di ciò che viene definito ambizione? Non può dunque accadere che molti, più grandi di Milton, siano stati paghi di restare «muti e senza gloria?». Credo che il mondo non abbia mai visto (né vedrà mai, a meno che una serie di casi fortuiti non sproni una mente d'ordine eccelso a compiti ingrati) la piena misura dell'esecuzione trionfale di cui la natura umana è capace, nei più ricchi domini dell'arte.
Ellison non divenne né musicista né poeta; anche se mai visse uomo che fosse più di lui profondamente innamorato della musica e della poesia. In circostanze diverse da quelle in cui venne a trovarsi, non è escluso che sarebbe diventato pittore. La scultura, pur nella sua natura rigorosamente poetica, era troppo limitata nella sua portata e prospettive per occupare a lungo, in qualsiasi momento, la sua attenzione. E con ciò ho nominato tutti i campi nei quali, secondo ciò che comunemente s'intende per sentimento poetico, tale sentimento può spaziare. Ma Ellison sosteneva che il campo più ricco, più vero e più naturale, se non addirittura il più vasto, era stato inspiegabilmente trascurato. Nessuna definizione aveva mai parlato dell'architetto di giardini come di un poeta; eppure era convinzione del mio amico che la creazione di un giardino paesaggistico offrisse alla Musa adatta la più splendida delle occasioni. Qui, infatti, si apriva allo spiegarsi della fantasia il campo più bello ove creare infinite combinazioni di nuove forme di bellezza; e gli elementi che entravano in tali combinazioni erano di gran lunga i più splendidi che la terra potesse offrire. Nella multiforme e multicolore varietà dei fiori e degli alberi, egli vedeva lo sforzo più diretto e più efficace della Natura per giungere alla bellezza fisica. E nella direzione o concentrazione di questo sforzo - o, più esattamente, nel suo adattarlo agli occhi che dovevano contemplarlo sulla terra - riteneva di dovere usare i mezzi migliori, adoperandosi al massimo affinché si compissero e il suo destino di poeta e gli augusti scopi per i quali la Divinità aveva radicato nell'uomo il sentimento poetico.
«Adattarlo agli occhi che dovevano contemplarlo sulla terra...». Spiegandomi questa sua espressione, Mr. Ellison molto contribuì a risolvere quello che a me era sempre parso un enigma: intendo il fatto (che solo gli inesperti mettono in dubbio) che in natura non esiste combinazione di scenari quale può essere prodotta da un pittore di genio. Non è possibile trovare nella realtà paradisi come quelli che splendono radiosi nelle tele di Claude Lorrain. Nel più incantevole paesaggio naturale si troverà sempre un difetto o un eccesso: molti difetti e molti eccessi. Anche se le singole parti possono sfidare, individualmente, la somma abilità dell'artista, la disposizione di queste parti è sempre suscettibile di un miglioramento. In breve, su tutta la vasta superficie della terra naturale, non si può trovare un punto dal quale un occhio d'artista, osservando attentamente, non scorga qualcosa di sgradevolmente incongruo in quella che viene definita la composizione del paesaggio. Eppure come è incomprensibile tutto questo! In tutte le altre questioni ci è stato giustamente insegnato a considerare la natura come perfetta. Chi oserà imitare i colori del tulipano e migliorare le proporzioni del mughetto? È in errore la critica che sostiene, a proposito della scultura e del ritratto, che la natura va esaltata o idealizzata, piuttosto che imitata. Non esiste combinazione pittorica o scultorea dei particolari dell'umana bellezza che si accosti alla bellezza che vive e respira. Solo nel paesaggio i princìpi di tale critica sono veri; e dopo averli sentiti veri nel paesaggio, solo da una superficiale tendenza alla generalizzazione essa è portata a proclamarli veri in tutti i campi dell'arte; ripeto, dopo averli sentiti veri nel paesaggio, poiché la sensazione non è né affettazione né chimera. La matematica non fornisce dimostrazioni più assolute di quelle che il sentimento della sua arte offre all'artista. Questi non solo crede, ma sa con certezza che determinate disposizioni della materia, apparentemente arbitrarie, costituiscono, e sono le sole a costituire, la vera bellezza. Tuttavia le sue ragioni non hanno ancora trovato una compiuta espressione. È compito di una analisi più profonda di quante ne conosca il mondo esaminarle a fondo ed esprimerle. E tuttavia l'artista trova conferma delle sue opinioni istintive nella voce di tutti i suoi confratelli. Supponiamo che una «composizione» sia imperfetta e che venga apportata una correzione unicamente alla sua disposizione formale; quando questa correzione verrà sottoposta al giudizio di tutti gli artisti di questo mondo, ognuno di essi dovrà ammetterne la necessità. E v'è di più: per ovviare a quanto vi è di imperfetto in una composizione, ogni singolo membro della confraternita avrebbe suggerito l'identica correzione.
Ripeto che soltanto nelle varie disposizioni del paesaggio la natura fisica è suscettibile di esaltazione e che, perciò, la sua suscettibilità a migliorare solo quest'unico punto costituiva per me un mistero che mai ero riuscito a risolvere. Le mie opinioni in proposito poggiavano sull'idea che intenzione primitiva della natura fosse stata quella di sistemare la superficie della terra in modo da appagare sotto ogni aspetto il senso umano della perfezione nel bello, nel sublime o nel pittoresco, ma che questa primitiva intenzione fosse stata frustrata dai noti sconvolgimenti geologici - sconvolgimenti di forma e di raggruppamento di colori, nella cui correzione o modificazione consiste lo spirito dell'arte. La forza di questa idea era però notevolmente infirmata dalla necessità in essa implicita di considerare detti sconvolgimenti anomali e inadatti a qualsivoglia scopo. Fu Ellison a suggerire che essi fossero preannunzi di morte. Così spiegò: «Ammettiamo che l'intenzione prima sia stata l'immortalità terrena dell'uomo; di qui il primitivo adattamento della superficie della terra a questo suo stato di suprema felicità, non esistente ma progettato. Gli sconvolgimenti geologici furono il preludio alla condizione mortale successivamente concepita.
«Ora», disse il mio amico, «ciò che noi riteniamo sublimazione del paesaggio può essere effettivamente tale in quanto riflette soltanto il punto di vista morale e umano. Qualsiasi alterazione della scena naturale può produrre un'imperfezione nel quadro se solo riusciamo a immaginare che questo quadro sia osservato complessivamente, nell'insieme, da un punto lontano dalla superficie terrestre, purché non al di là dei limiti della sua atmosfera. Si comprende facilmente che ciò che potrebbe migliorare un dettaglio esaminato da vicino può nello stesso tempo danneggiare un effetto generale o osservato da più grande distanza. Può esistere, insomma, una categoria di esseri, un tempo umani ma ora invisibili all'umanità, ai quali, da lontano, il nostro disordine appaia ordine, la nostra assenza di pittoresco, pittoresca: insomma, gli angeli terreni per la cui vista, più che per la nostra, e per il cui affinato gusto del bello sublimato dalla morte può darsi che Dio abbia armoniosamente composto i vasti giardini paesaggistici dei due emisferi».
Nel corso di questa discussione, il mio amico citò alcuni passi di un esperto in fatto di progettazione di giardini, che sembra abbia trattato questo argomento con notevole competenza:
«Vi sono propriamente, nella progettazione di giardini, due stili: il naturale e l'artificiale. L'uno cerca di ricreare la bellezza originaria della campagna adattando i propri mezzi allo scenario circostante; coltivando alberi in armonia con le colline o la pianura delle adiacenti contrade; scoprendo e ponendo in risalto quei sottili rapporti di misura, di proporzione e di colore che, celati al comune osservatore, si rivelano ovunque all'esperto studioso della natura. Il risultato dello stile naturale di giardinaggio appare più nell'assenza di ogni difetto e incongruenza, nella prevalenza di sana armonia e ordine, che non nella creazione di particolari meraviglie o miracoli. Lo stile artificiale presenta tante varietà quanti sono i gusti da soddisfare; ha un certo generico rapporto con i vari stili architettonici. Vi sono i viali maestosi e i recessi di Versailles, le terrazze italiane, e un vario e misto stile inglese antico che ha una certa affinità con l'architettura domestica d'Inghilterra, gotica e elisabettiana. Qualunque cosa possa dirsi contro gli eccessi dello stile artificiale di giardinaggio, una mescolanza di arte pura in uno scenario di giardino vi aggiunge grande bellezza. Ne deriva un effetto che, grazie all'ordine e al disegno appaga l'occhio e, oltre ad esso, lo spirito. Una terrazza dall'antica balaustra coperta di muschi evoca immediatamente allo sguardo le belle forme che in altri tempi vi transitarono. Anche la meno appariscente manifestazione d'arte è una prova dell'amore e dell'interesse umano.
«Da quanto son venuto osservando», disse Ellison, «capirete che respingo l'idea, qui espressa, di ricreare la bellezza originaria della campagna. La bellezza originaria non è mai tanto grande quanto quella che può esservi introdotta artificialmente. Tutto naturalmente dipende dalla scelta di un luogo che a ciò si presti. Quanto si è detto sullo scoprire e porre in risalto eleganti rapporti di misura, di proporzione e di colore non è che una delle tante vaghe espressioni che servono a velare un concetto impreciso. La frase citata può significare tutto o niente, e non offre alcuna soluzione. Che il vero risultato dello stile naturale appaia più nell'assenza di ogni difetto e incongruenza che nella creazione di particolari meraviglie o miracoli, è una frase più consona alla servile intelligenza delle masse che ai fervidi sogni dell'uomo di genio. Il merito negativo in essa implicito si addice a quella critica zoppicante che, in letteratura, decreterebbe l'apoteosi di Addison. In verità, mentre quella virtù che consiste semplicemente nell'evitare il vizio fa appello direttamente all'intelletto e può in tal modo essere circoscritta in una regola, la virtù più nobile che arde nella creazione può essere appresa soltanto nei risultati. La regola si applica unicamente ai meriti negativi, alle perfezioni che limitano. Al di là di queste, la critica, in quanto arte, può solo suggerire. Da essa possiamo apprendere a creare un Catone, ma invano essa ci direbbe come concepire un Partenone o un Inferno. Comunque, una volta che la cosa sia fatta, la meraviglia compiuta, la capacità di comprensione diviene universale. I sofisti della scuola negativa che per la loro incapacità di creare hanno deriso la creazione, sono ora i primi ad applaudire. Ciò che allo stato embrionale di principio offendeva la loro pavida ragione, non manca mai, nella maturità del suo compimento, di muovere all'ammirazione il loro istintivo senso del bello.
«Le osservazioni dell'autore circa lo stile artificiale», continuò Ellison, «sono meno facilmente confutabili. Una mescolanza di arte pura in uno scenario di giardino vi aggiunge grande bellezza. Questo è esatto; come è esatto il riferimento al senso dell'interesse umano. Il principio espresso è incontrovertibile, ma può esservi dell'altro al di là di questo. Può esservi una meta conforme al principio - una meta irraggiungibile coi mezzi solitamente posseduti dagli individui - che tuttavia, se raggiunta, conferirebbe al giardino paesaggistico un fascino di gran lunga superiore a quello conferitogli da un interesse meramente umano. Un poeta che disponga di non comuni risorse finanziarie potrebbe, pur conservando il necessario concetto d'arte, o di cultura, o - come si esprime il nostro autore - di interesse, potrebbe subito infondere nei suoi progetti una bellezza così nuova e vasta da comunicare il senso di un intervento sovrumano. Si vedrà che nel tradurre in atto tale risultato egli assicura tutti i vantaggi dell'interesse o del disegno, liberando la sua opera dall'asprezza o dal tecnicismo dell'arte terrena. Nei deserti più desolati, nei più selvaggi scenari naturali è manifesta l'arte di un creatore; eppure quest'arte si manifesta solo alla riflessione, non possedendo sotto nessun aspetto la forza spontanea del sentimento. Immaginiamo ora che questo senso della finalità dell'Onnipotente retroceda di un grado per tradursi in qualcosa che sia in armonia o in accordo col senso dell'arte umana, per formare un che di intermedio tra l'uno e l'altro: immaginiamo, ad esempio, un paesaggio in cui si combinino vastità e ordine, la cui bellezza, magnificenza e stranezza unite insieme suggeriscano l'idea di cura, o coltura, o attenzione da parte di esseri superiori, e tuttavia affini all'umanità: in tal caso l'interesse verrà conservato, mentre l'arte di cui l'opera sarà compenetrata verrà ad assumere l'aspetto di una natura intermediaria o secondaria - una natura che non è Dio né un'emanazione di Dio ma che è pur sempre natura nel senso di creazione degli angeli che si librano tra l'uomo e Dio».
Fu consacrando la sua enorme ricchezza all'incarnazione di una visione come questa; nel moto all'aria aperta reso necessario dalla soprintendenza personale dei suoi piani; nello scopo incessante che questi piani offrivano; nell'alta spiritualità di questo scopo; nel disdegno dell'ambizione che gli permetteva di sentire veramente; nelle fonti perenni in cui placava, senza saziarla, la passione dominante del suo animo, la sete di bellezza fu, soprattutto, nella comprensione, squisitamente femminile, di una donna, la cui beltà e il cui amore avvolsero la sua esistenza in una purpurea atmosfera di paradiso, che Ellison credette di trovare, e trovò in effetti, l'esenzione dalle cure consuete dell'umanità con una somma di felicità concreta assai più grande di quanto abbia mai potuto raggiare nelle rapite fantasie di Madame de Staël.
Dispero di poter dare al lettore un'idea distinta delle meraviglie che il mio amico effettivamente compì. Vorrei descriverle, ma sono scoraggiato dalla difficoltà della descrizione ed esito tra il particolare e il generale. Forse la soluzione migliore sarà di fondere questo e quello nei loro estremi.
Il primo passo, per Mr. Ellison, fu naturalmente quello della scelta del luogo; e non appena cominciò a meditarci sopra, fu la natura lussureggiante delle isole del Pacifico a colpire la sua attenzione. in effetti, aveva già deciso di compiere un viaggio nei Mari del Sud, quando una notte di riflessione lo indusse ad accantonare l'idea. «Se fossi un misantropo», disse, «un luogo del genere mi si addirebbe. L'isolamento totale, la sua solitudine, e la difficoltà di accedervi e di partirne sarebbero in tal caso l'incanto degli incanti, ma io non sono ancora un Timone. Amo la quiete, ma non la depressione della solitudine. Debbo riservarmi un certo controllo della misura e della durata del mio riposo. Vi saranno, e spesso, ore in cui avrò bisogno anche di comprensione poetica per ciò che avrò compiuto. Cerchiamo dunque un luogo non distante da una città popolosa, la cui prossimità mi consentirà inoltre di meglio realizzare i miei piani».
Alla ricerca di un luogo adatto e così situato, Ellison viaggiò per diversi anni, consentendomi di accompagnarlo. Migliaia di luoghi per me affascinanti li scartò senza esitazione, per motivi che mi convinsero alla fine che egli era nel giusto.
Giungemmo finalmente su un altipiano di incomparabile fertilità e bellezza che offriva un panorama poco minore in estensione di quello che si gode dall'Etna e che, a parere di Ellison e anche mio, superava la famosa vista di quella montagna in tutti gli elementi più genuini del pittoresco.
«Mi rendo conto», disse il viaggiatore, traendo un sospiro di intensa gioia dopo aver contemplato estatico la scena per quasi un'ora, «so bene che qui, nelle mie condizioni, nove decimi degli uomini più esigenti si riterrebbero pienamente appagati. Questo panorama è davvero splendido, e ne godrei non fosse proprio per l'eccesso del suo splendore. Il gusto di tutti gli architetti che ho conosciuto li porta, per amore della «prospettiva», a costruire case in vetta alle colline. E sbagliano, è evidente. La grandiosità in ogni suo aspetto, ma soprattutto se intesa come estensione, colpisce, eccita, ma alla fine stanca, deprime. Per una scena occasionale, non v'è nulla di meglio: per una veduta costante, nulla di peggio. E, in una veduta costante, ciò che più offende nella grandiosità è l'estensione; ciò che più offende nell'estensione è la distanza. È in contraddizione con il sentimento e con il senso di reclusione, sentimento e senso che cerchiamo di appagare «ritirandoci in campagna». Guardando dall'alto di una montagna non possiamo fare a meno di sentirci fuori del mondo. Chi ha la tristezza nel cuore evita come una pestilenza le prospettive senza fine».
Fu solo al termine del quarto anno delle nostre ricerche che trovammo una località di cui Ellison si dichiarò pienamente soddisfatto. Naturalmente è superfluo dire dove tale località fosse situata. La morte recente del mio amico, facendo sì che al suo «dominio» potessero accedere certe categorie di visitatori, ha dato ad Arnheim una sorta di dignità segreta e raccolta, se non solenne, affine a quella che per tanto tempo distinse Fonthill, ma di qualità infinitamente superiore.
La normale via d'accesso ad Arnheim era il fiume. Il visitatore lasciava la città all'alba. Nel corso della mattinata passava tra sponde di pacata e domestica bellezza, dove pascolavano innumerevoli greggi, i cui bianchi velli chiazzavano il verde vivo dei prati ondulanti. A poco a poco, all'idea di coltivazione si sostituiva quietamente quella di una vita esclusivamente pastorale. Lentamente, questa si dissolveva in un senso di isolamento che a sua volta si mutava in consapevolezza della solitudine. Via via che s'appressava il calar della sera, il canale si faceva più stretto, le rive sempre più scoscese e ammantate di fronde sempre più ricche, più folte e più scure. L'acqua diventava più trasparente. Il suo corso formava mille meandri, per cui mai se ne poteva scorgere la superficie scintillante per più di duecento yarde. Ad ogni istante la barca pareva imprigionata in un cerchio magico di mura impenetrabili e insuperabili di fogliame, dal tetto di raso d'un azzurro oltremare, ma senza pavimento: con grazia mirabile la chiglia ondeggiava su quella di una barca fantasma capovoltasi per chissà qual caso, che sempre galleggiava, in compagnia di quella vera, come a volerla sorreggere. Ora il canale diventava una gola - anche se questo termine non è il più esatto e lo l'uso soltanto perché la lingua non ha parola che meglio rappresenti l'aspetto più tipico, se non il più singolare, della scena. La gola era tale solo per l'altezza e parallelismo delle sponde; non per gli altri suoi connotati. Le pareti del burrone (attraverso il quale l'acqua continuava a fluire limpida e tranquilla) , si elevavano sino a cento e talvolta sino a centocinquanta piedi ed erano talmente inclinate l'una verso l'altra da precludere quasi l'accesso alla luce del giorno, mentre i piumati muschi che lunghi e folti pendevano dai cespugli intrecciantisi in alto davano a tutta la voragine un'aria di funerea malinconia. I meandri divenivano più frequenti e intricati e sembravano spesso ritornare su se stessi, così che il viaggiatore finiva a lungo andare col perdere ogni idea di orientamento. Non solo, ma si sentiva avvolto da un senso squisito di «strano». Permaneva l'idea di natura, ma i suoi caratteri parevano aver subito un mutamento: c'era, in queste sue opere, un'arcana simmetria, una vibrante uniformità, un fatato nitore. Non un ramo secco, non una foglia appassita, non un viottolo fuori posto, non una zolla di terra brulla. L'acqua cristallina lambiva il levigato granito o il musco intatto con una purezza di contorni che deliziava e insieme sbalordiva l'occhio.
Dopo aver percorso per ore i labirinti di questa via fluviale, con l'oscurità che ad ogni momento s'infittiva, una svolta brusca e inattesa improvvisamente sospingeva l'imbarcazione, quasi fosse caduta dal cielo, entro un bacino circolare di notevole estensione, se paragonata con l'ampiezza della gola. Aveva un diametro di circa duecento yarde ed era circondato da ogni parte tranne una - quella immediatamente di fronte al punto d'accesso della barca - da colline pressoché uguali in altezza alle pareti del baratro, ma di aspetto completamente diverso. I loro pendii s'inclinavano dal pelo dell'acqua con un angolo di circa quarantacinque gradi, ed erano ricoperti dalla base alla cima, in ogni loro punto, da un tappeto di fiori in boccio delle tinte più smaglianti; pochissime erano le foglie verdi visibili in quell'ondoso, profumato mare di colore. Il bacino era assai profondo, ma così trasparente era l'acqua che il fondo, che pareva formato da una fitta massa di minuscoli, tondi ciottoli d'alabastro, era perfettamente visibile a tratti: ogni qualvolta, cioè, l'occhio riusciva a non vedere, giù nel profondo del cielo capovolto, l'immagine riflessa delle colline in fiore. Su queste non v'erano alberi di sorta, neppure arbusti. Le impressioni prodotte sull'osservatore erano di ricchezza, di calore, di colore, di quiete, di uniformità, di dolcezza, di delicatezza, d'eleganza, di voluttà e di una quasi miracolosa perfezione di coltura che faceva sognare di una nuova stirpe di fate operose, raffinate, magnifiche ed esigenti; ma appena l'occhio risaliva il pendio versicolore dalla nitida linea ove si congiungeva all'acqua fino alla sommità perduta fra i veli delle nubi sovrastanti, era davvero difficile non immaginare che una cascata panoramica di rubini, zaffiri, opali e onici dorate non precipitasse silenziosa dal cielo.
Il visitatore, uscendo d'improvviso in questa baia dalle tenebre della gola, resta incantato e insieme stordito alla vista del grande globo del sole che egli immaginava già sceso sotto l'orizzonte e che invece gli sta di fronte: unico confine di una prospettiva d'altronde illimitata che appare attraverso un'altra gola che s'apre tra le colline...
Ma a questo punto il viaggiatore abbandona la barca che lo ha condotto fin qui e discende in una leggera canoa d'avorio, tutta adorna dentro e fuori di arabeschi d'un vivido scarlatto. La poppa e la prora della piccola imbarcazione si levano alte, puntute, sull'acqua, sicché la sua forma somiglia a un dipresso a quella di una mezzaluna irregolare. La canoa posa sulla superficie della baia con l'orgogliosa grazia di un cigno. Sul fondo d'ermellino poggia un'unica pagaia di legno satinato, lieve come una piuma, ma non si vedono né nocchieri né rematori. L'ospite non si perda di coraggio: il fato avrà cura di lui. La barca più grande scompare, ed egli rimane solo nella canoa che giace apparentemente immobile in mezzo al lago. Ma, mentre medita sulla rotta da seguire, si accorge di un lieve movimento del naviglio fatato: lentamente, esso ruota su se stesso, puntando infine la prua verso il sole. Prende quindi ad avanzare a velocità moderata, e tuttavia gradualmente crescente, mentre dalle piccole onde increspate che si formano frangendosi contro i suoi fianchi d'avorio sembra sprigionare una melodia soprannaturale; ed è questa, forse, l'unica spiegazione possibile di quella musica consolante eppure malinconica di cui il viaggiatore, rapito, cerca invano l'origine intorno a sé. La canoa procede sicura, avvicinandosi all'ingresso rupestre della prospettiva, di cui lo sguardo ora esplora più distintamente le profondità. Sulla destra si leva una catena di alte colline ammantate di selve selvagge e lussureggianti. Si osserva tuttavia che là dove la sponda si tuffa nell'acqua permane la caratteristica di squisito nitore. Non v'è traccia dei soliti detriti fluviali. Sulla sinistra lo scenario è più dolce e più palesemente artificiale. Qui la riva dolcemente ascende dal fiume e forma un vasto tappeto erboso la cui trama a nulla è più simile che al velluto, e di un verde così brillante da poter reggere il confronto con lo smeraldo più puro. Questo altipiano varia in ampiezza da dieci a trecento yarde e si estende dal fiume a una parete alta cinquanta piedi che si snoda in un'infinità di curve ma sempre seguendo il corso generale del fiume sino a perdersi in lontananza, verso occidente. La parete è fatta di un'unica roccia, compatta e continua, ed è stata tagliata verticalmente nella parete un tempo strapiombante della sponda meridionale del fiume; ma non vi è traccia alcuna di così laboriosa fatica. La pietra cesellata ha il colore dei secoli ed è profusamente adorna di cortine d'edera, caprifoglio, rose di macchia, clematidi. L'uniformità delle linee della parete, nella parte superiore come in quella inferiore, è qua e là felicemente variata da alberi giganteschi, isolati o in piccoli gruppi, sia lungo l'altipiano, sia negli spazi oltre la parete, ma vicinissimi a questa, di modo che spesso i rami (specie del noce nero) ne sporgono tuffando le loro pendule estremità nell'acqua. Più lontano, all'interno del «dominio», la vista non giunge, preclusa com'è da un impenetrabile schermo di fronde.
Tutto ciò si osserva mentre la canoa s'appressa sempre più a quello che ho chiamato l'ingresso della prospettiva. Ma via via che si fa più vicino, esso perde il suo aspetto di gola; si scopre a sinistra una nuova uscita dalla baia, e si nota che in quella direzione la parete continua ad arcuarsi, sempre seguendo il corso generale del fiume. Entro questa nuova apertura lo sguardo non può spingersi molto lontano, perché il fiume, sempre costeggiato dalla parete, piega sempre più a sinistra, finché entrambi sono inga a inarcarsi in ampia, dolcissima curva verso sinistra, come prima costeggiato dalla parete rupestre, mentre un rivo gonfio d'acqua, dipartendosi dal corso principale, si insinua con lieve sciabordio sotto il portale e scompare così alla vista. La canoa s'infila nel braccio minore del fiume e si avvicina al portale. Lentamente, melodiosamente si dischiudono i ponderosi battenti. La barca vi scivola in mezzo, iniziando quindi una rapida discesa entro un vasto anfiteatro interamente cinto da purpuree montagne, lambite tutt'intorno alla base dalle acque scintillanti del fiume.
Ed ecco che d'un tratto tutto il paradiso di Arnheim si rivela, abbagliante, allo sguardo. Sgorga, come onda sorgiva, una maliosa melodia; ci si sente come oppressi dalla sensazione di profumi strani e squisiti; l'occhio coglie, come intrichi di sogni, snelli, slanciati alberi d'Oriente, cespugli frondosi, stormi d'uccelli di porpora e d'oro; e laghi fioriti di gigli, e prati di viole, tulipani, papaveri, giacinti e tuberosehiottiti dal fogliame.
Tuttavia la piccola imbarcazione scivola magicamente nel canale sinuoso, e qui si scopre che la sponda di faccia alla parete rassomiglia a quella che fronteggiava la parete lungo la prospettiva rettilinea. Superbe colline, alte a volte come montagne e coperte di una vegetazione selvaggiamente lussureggiante, delimitano ancora la scena.
Sospinto dolcemente innanzi ma a una velocità leggermente superiore, il viaggiatore, dopo molte brevi svolte, trova la via apparentemente sbarrata da una cancellata gigantesca, o meglio da una porta d'oro brunito, elaboratamente cesellato e sbalzato, sul quale si riflettono direttamente i raggi del sole che ormai rapidamente tramonta con un fulgore che par cingere d'un'aureola di fiamme tutta la circostante foresta. Questo portale si inserisce nell'erta parete che qui sembra tagliare il fiume ad angolo retto. Tra pochi istanti, comunque, ci si avvedrà che il filone della corrente continu; e ruscelli che s'intersecano in lunghi fili d'argento. E, diafanosorgente sopra tutto ciò, prodigiosamente librandosi a mezz'aria, splendida nella rossa luce del sole con i suoi cento loggiati, minareti e pinnacoli, un'immensa architettura semi gotica semi saracena. E par la fantastica creazione cui abbiano posto mano insieme Silfidi, Fate, Geni e Gnomi.
Che giacesse in estatico sopore,
Con gli occhi chiusi ai cieli spalancati.
Nitidi i campi dell'Azzurro orlavano
Un ampio cerchio di fiori di luce.
I fiordalisi e i globi scintillanti
Della rugiada, penduli sui loro
Petali azzurri, apparivano quali
Luci palpitanti di stelle nel blu della sera.
Giles Fletcher
Una ventata di prosperità accompagnò dalla culla alla tomba il mio amico Ellison. E non uso la parola «prosperità» in senso meramente mondano. La intendo come sinonimo di felicità. La persona di cui parlo sembrava nata per prefigurare le dottrine di Turgot, di Price, di Priestley e di Condorcet: per esemplificare con un'esperienza personale quella che è stata ritenuta la chimera dei perfezionisti. Nella breve esistenza di Ellison - tale è la mia impressione - ho veduto la confutazione del dogma secondo cui nella stessa natura umana sia insito un qualche principio occulto contrario alla felicità. Un attento studio della sua esperienza di vita mi ha portato a comprendere che, in generale, le miserie dell'umana specie derivino dalla violazione di certe semplici leggi umane (ché, in quanto specie, possediamo, ancora intatti, gli elementi essenziali della felicità), e che anche adesso, nella presente confusione e follia del pensiero circa il grande problema della condizione sociale, non è impossibile che l'uomo, l'individuo, in certe condizioni insolite ed estremamente fortuite, possa essere felice.
Anche il mio giovane amico era imbevuto di simili opinioni, per cui vale la pena di osservare che l'ininterrotta prosperità che caratterizzava la sua vita fu in ampia misura il risultato di un preordinato sistema. È infatti evidente che, senza quella filosofia istintiva che di quando in quando sostituisce così bene l'esperienza, sarebbe precipitato, proprio a causa del più che straordinario successo della sua vita, nel consueto vortice di infelicità che si spalanca davanti a chi la sorte favorisce di doti superiori. Ma non è affatto mia intenzione scrivere un trattato sulla felicità. Le idee del mio amico possono essere riassunte in poche parole. Egli ammetteva soltanto quattro princìpi-base o, più precisamente, condizioni di felicità assoluta. Quella che considerava la principale era (strano a dirsi!) di natura semplicissima e puramente fisica: fare del moto all'aria aperta. «La salute», diceva, «che si ottiene con altri mezzi non è neppure degna di questo nome».
E portava ad esempio le ebbrezze della caccia alla volpe e vedeva nei coltivatori della terra le sole persone che, in quanto classe, possono a ragione esser considerate più felici delle altre. La seconda condizione era l'amore di una donna. La terza, la più difficile da realizzare, era il disdegno dell'ambizione. La quarta, una meta incessantemente perseguita; ed egli sosteneva che, a pari condizioni, la misura della felicità conseguibile fosse proporzionata alla spiritualità di tale meta.
Ellison si distingueva per la profusione dei doni continuamente prodigatigli dalla fortuna. Non v'era uomo che lo superasse per grazia e bellezza della persona. La sua intelligenza era una di quelle per cui l'acquisizione del sapere costituisce, più che una fatica, un'intuizione e una necessità. La sua famiglia era tra le più illustri dell'impero, sua moglie la più leggiadra e devota delle donne. I suoi beni erano sempre stati cospicui, ma quando ebbe raggiunto la maggiore età, si scoprì che aveva beneficiato di uno di quegli straordinari capricci del destino che lasciano sbalordita tutta quanta la società in cui si producono e non mancano, quasi mai di mutare radicalmente il carattere morale di coloro che ne sono l'oggetto.
Pare che un centinaio d'anni prima che Mr. Ellison divenisse maggiorenne, fosse morto in una provincia remota un certo Seabright Ellison. Questo signore aveva accumulato una fortuna principesca e, non avendo parenti prossimi, si concesse il capriccio di lasciare ammassare tale ricchezza per un secolo dopo la sua morte. Amministrando con minuzia e sagacia le varie forme di investimento, dispose nel suo testamento che l'intero patrimonio andasse al più stretto consanguineo di nome Ellison che fosse vivo allo scadere dei cent'anni. Si erano fatti molti tentativi per impugnare questo singolare testamento, ma trattandosi di un ex post facto, riuscirono tutti infruttuosi; tuttavia la cosa non mancò di destare l'attenzione di un governo sospettoso, e infine venne passato un decreto che vietava per l'avvenire ogni analogo accumularsi di ricchezze. Questo atto legislativo non impedì comunque al giovane Ellison di entrare in possesso, al suo ventunesimo compleanno, quale erede del suo antenato Seabright, di una fortuna di quattrocentocinquanta milioni di dollari.
Quando si seppe che a tanto ammontava l'enorme ricchezza ereditata, si fecero, naturalmente, numerose congetture sul suo possibile impiego. L'enormità e la disponibilità immediata della somma sconcertavano tutti quelli che affrontavano tale questione. Si poteva facilmente immaginare che il possessore di un'apprezzabile quantità di denaro facesse una qualunque delle tante, delle mille cose possibili . Se le sue ricchezze fossero state semplicemente superiori a quelle di ogni altro privato, sarebbe stato facile supporre che egli si abbandonasse alle smodate stravaganze in voga al suo tempo: che, cioè, si desse agli intrighi politici, o ambisse a una carica ministeriale, o si procurasse un titolo nobiliare, o, ancora, collezionasse pezzi da museo, o si atteggiasse a munifico patrono delle lettere, della scienza, dell'arte... o promuovesse, battezzandole col suo nome, grandi fondazioni benefiche. Ma per la ricchezza inconcepibile che si trovava a possedere l'erede, questi scopi, e tutti gli scopi normali, costituivano evidentemente un campo troppo ristretto. Si ricorse ai calcoli, e questi non fecero che accrescere la confusione. Si vide che anche al tre per cento, l'introito annuo dell'eredità ammontava a non meno di tredici milioni e cinquecentomila dollari; il che significava un milione e centoventicinquemila dollari al mese, trentaseimilanovecentottantasei al giorno, millecinquecentoquarantuno all'ora e ventisei per ogni minuto che passava. Così il corso normale delle supposizioni era completamente sovvertito. La gente non sapeva cosa inventare. Alcuni arrivarono persino a immaginare che il signor Ellison rinunciasse ad almeno metà della sua fortuna come a cosa per lui assolutamente superflua, arricchendo folle di parenti mediante una divisione di così soverchia abbondanza. Ai più prossimi fra essi lasciò in effetti il già cospicuo patrimonio da lui posseduto prima dell'eredità. Non fui sorpreso tuttavia di vedere che già da tempo aveva preso una ferma decisione su un punto che tante discussioni aveva suscitato fra i suoi amici. Né fui gran che stupito del carattere di tale decisione. Per quel che riguardava la beneficenza individuale, la sua coscienza era tranquilla. Quanto poi alla possibilità che un solo uomo riuscisse a operare un qualsiasi progresso, nel senso vero della parola, interessante la condizione umana, era (mi dispiace confessarlo) alquanto scettico. Tutto sommato, bene o male che fosse, si concentrò quasi esclusivamente su se stesso.
Era, nel senso più vasto e più nobile del termine, un poeta. Non solo, ma comprendeva in sé il vero carattere, gli scopi augusti, la suprema maestà e dignità del sentimento poetico. Sentiva istintivamente che l'appagamento più pieno, se non proprio l'unico, di questo sentimento consisteva nella creazione di nuove forme di bellezza. Alcune peculiarità, o dei suoi studi giovanili o della natura del suo intelletto, avevano dato alle sue speculazioni etiche una certa sfumatura di ciò che si suol definire materialismo; e fu forse questa sua propensione a indurlo a credere che il campo più proficuo, se non addirittura il solo legittimo, al manifestarsi dell'esercizio poetico, sia quello della creazione di nuove forme di bellezza puramente fisica. Così accadde che egli non divenne né musicista né poeta, se vogliamo usare questa parola nella sua accezione consueta. O forse egli non si curò di diventare né l'uno né l'altro (anche questo è possibile), solo per attenersi alla sua idea che nel disdegno dell'ambizione risieda uno dei princìpi essenziali della felicità su questa terra? Non può darsi, in effetti, che mentre i geni di ordine superiore sono necessariamente ambiziosi, quelli di ordine ancora più elevato siano al di sopra di ciò che viene definito ambizione? Non può dunque accadere che molti, più grandi di Milton, siano stati paghi di restare «muti e senza gloria?». Credo che il mondo non abbia mai visto (né vedrà mai, a meno che una serie di casi fortuiti non sproni una mente d'ordine eccelso a compiti ingrati) la piena misura dell'esecuzione trionfale di cui la natura umana è capace, nei più ricchi domini dell'arte.
Ellison non divenne né musicista né poeta; anche se mai visse uomo che fosse più di lui profondamente innamorato della musica e della poesia. In circostanze diverse da quelle in cui venne a trovarsi, non è escluso che sarebbe diventato pittore. La scultura, pur nella sua natura rigorosamente poetica, era troppo limitata nella sua portata e prospettive per occupare a lungo, in qualsiasi momento, la sua attenzione. E con ciò ho nominato tutti i campi nei quali, secondo ciò che comunemente s'intende per sentimento poetico, tale sentimento può spaziare. Ma Ellison sosteneva che il campo più ricco, più vero e più naturale, se non addirittura il più vasto, era stato inspiegabilmente trascurato. Nessuna definizione aveva mai parlato dell'architetto di giardini come di un poeta; eppure era convinzione del mio amico che la creazione di un giardino paesaggistico offrisse alla Musa adatta la più splendida delle occasioni. Qui, infatti, si apriva allo spiegarsi della fantasia il campo più bello ove creare infinite combinazioni di nuove forme di bellezza; e gli elementi che entravano in tali combinazioni erano di gran lunga i più splendidi che la terra potesse offrire. Nella multiforme e multicolore varietà dei fiori e degli alberi, egli vedeva lo sforzo più diretto e più efficace della Natura per giungere alla bellezza fisica. E nella direzione o concentrazione di questo sforzo - o, più esattamente, nel suo adattarlo agli occhi che dovevano contemplarlo sulla terra - riteneva di dovere usare i mezzi migliori, adoperandosi al massimo affinché si compissero e il suo destino di poeta e gli augusti scopi per i quali la Divinità aveva radicato nell'uomo il sentimento poetico.
«Adattarlo agli occhi che dovevano contemplarlo sulla terra...». Spiegandomi questa sua espressione, Mr. Ellison molto contribuì a risolvere quello che a me era sempre parso un enigma: intendo il fatto (che solo gli inesperti mettono in dubbio) che in natura non esiste combinazione di scenari quale può essere prodotta da un pittore di genio. Non è possibile trovare nella realtà paradisi come quelli che splendono radiosi nelle tele di Claude Lorrain. Nel più incantevole paesaggio naturale si troverà sempre un difetto o un eccesso: molti difetti e molti eccessi. Anche se le singole parti possono sfidare, individualmente, la somma abilità dell'artista, la disposizione di queste parti è sempre suscettibile di un miglioramento. In breve, su tutta la vasta superficie della terra naturale, non si può trovare un punto dal quale un occhio d'artista, osservando attentamente, non scorga qualcosa di sgradevolmente incongruo in quella che viene definita la composizione del paesaggio. Eppure come è incomprensibile tutto questo! In tutte le altre questioni ci è stato giustamente insegnato a considerare la natura come perfetta. Chi oserà imitare i colori del tulipano e migliorare le proporzioni del mughetto? È in errore la critica che sostiene, a proposito della scultura e del ritratto, che la natura va esaltata o idealizzata, piuttosto che imitata. Non esiste combinazione pittorica o scultorea dei particolari dell'umana bellezza che si accosti alla bellezza che vive e respira. Solo nel paesaggio i princìpi di tale critica sono veri; e dopo averli sentiti veri nel paesaggio, solo da una superficiale tendenza alla generalizzazione essa è portata a proclamarli veri in tutti i campi dell'arte; ripeto, dopo averli sentiti veri nel paesaggio, poiché la sensazione non è né affettazione né chimera. La matematica non fornisce dimostrazioni più assolute di quelle che il sentimento della sua arte offre all'artista. Questi non solo crede, ma sa con certezza che determinate disposizioni della materia, apparentemente arbitrarie, costituiscono, e sono le sole a costituire, la vera bellezza. Tuttavia le sue ragioni non hanno ancora trovato una compiuta espressione. È compito di una analisi più profonda di quante ne conosca il mondo esaminarle a fondo ed esprimerle. E tuttavia l'artista trova conferma delle sue opinioni istintive nella voce di tutti i suoi confratelli. Supponiamo che una «composizione» sia imperfetta e che venga apportata una correzione unicamente alla sua disposizione formale; quando questa correzione verrà sottoposta al giudizio di tutti gli artisti di questo mondo, ognuno di essi dovrà ammetterne la necessità. E v'è di più: per ovviare a quanto vi è di imperfetto in una composizione, ogni singolo membro della confraternita avrebbe suggerito l'identica correzione.
Ripeto che soltanto nelle varie disposizioni del paesaggio la natura fisica è suscettibile di esaltazione e che, perciò, la sua suscettibilità a migliorare solo quest'unico punto costituiva per me un mistero che mai ero riuscito a risolvere. Le mie opinioni in proposito poggiavano sull'idea che intenzione primitiva della natura fosse stata quella di sistemare la superficie della terra in modo da appagare sotto ogni aspetto il senso umano della perfezione nel bello, nel sublime o nel pittoresco, ma che questa primitiva intenzione fosse stata frustrata dai noti sconvolgimenti geologici - sconvolgimenti di forma e di raggruppamento di colori, nella cui correzione o modificazione consiste lo spirito dell'arte. La forza di questa idea era però notevolmente infirmata dalla necessità in essa implicita di considerare detti sconvolgimenti anomali e inadatti a qualsivoglia scopo. Fu Ellison a suggerire che essi fossero preannunzi di morte. Così spiegò: «Ammettiamo che l'intenzione prima sia stata l'immortalità terrena dell'uomo; di qui il primitivo adattamento della superficie della terra a questo suo stato di suprema felicità, non esistente ma progettato. Gli sconvolgimenti geologici furono il preludio alla condizione mortale successivamente concepita.
«Ora», disse il mio amico, «ciò che noi riteniamo sublimazione del paesaggio può essere effettivamente tale in quanto riflette soltanto il punto di vista morale e umano. Qualsiasi alterazione della scena naturale può produrre un'imperfezione nel quadro se solo riusciamo a immaginare che questo quadro sia osservato complessivamente, nell'insieme, da un punto lontano dalla superficie terrestre, purché non al di là dei limiti della sua atmosfera. Si comprende facilmente che ciò che potrebbe migliorare un dettaglio esaminato da vicino può nello stesso tempo danneggiare un effetto generale o osservato da più grande distanza. Può esistere, insomma, una categoria di esseri, un tempo umani ma ora invisibili all'umanità, ai quali, da lontano, il nostro disordine appaia ordine, la nostra assenza di pittoresco, pittoresca: insomma, gli angeli terreni per la cui vista, più che per la nostra, e per il cui affinato gusto del bello sublimato dalla morte può darsi che Dio abbia armoniosamente composto i vasti giardini paesaggistici dei due emisferi».
Nel corso di questa discussione, il mio amico citò alcuni passi di un esperto in fatto di progettazione di giardini, che sembra abbia trattato questo argomento con notevole competenza:
«Vi sono propriamente, nella progettazione di giardini, due stili: il naturale e l'artificiale. L'uno cerca di ricreare la bellezza originaria della campagna adattando i propri mezzi allo scenario circostante; coltivando alberi in armonia con le colline o la pianura delle adiacenti contrade; scoprendo e ponendo in risalto quei sottili rapporti di misura, di proporzione e di colore che, celati al comune osservatore, si rivelano ovunque all'esperto studioso della natura. Il risultato dello stile naturale di giardinaggio appare più nell'assenza di ogni difetto e incongruenza, nella prevalenza di sana armonia e ordine, che non nella creazione di particolari meraviglie o miracoli. Lo stile artificiale presenta tante varietà quanti sono i gusti da soddisfare; ha un certo generico rapporto con i vari stili architettonici. Vi sono i viali maestosi e i recessi di Versailles, le terrazze italiane, e un vario e misto stile inglese antico che ha una certa affinità con l'architettura domestica d'Inghilterra, gotica e elisabettiana. Qualunque cosa possa dirsi contro gli eccessi dello stile artificiale di giardinaggio, una mescolanza di arte pura in uno scenario di giardino vi aggiunge grande bellezza. Ne deriva un effetto che, grazie all'ordine e al disegno appaga l'occhio e, oltre ad esso, lo spirito. Una terrazza dall'antica balaustra coperta di muschi evoca immediatamente allo sguardo le belle forme che in altri tempi vi transitarono. Anche la meno appariscente manifestazione d'arte è una prova dell'amore e dell'interesse umano.
«Da quanto son venuto osservando», disse Ellison, «capirete che respingo l'idea, qui espressa, di ricreare la bellezza originaria della campagna. La bellezza originaria non è mai tanto grande quanto quella che può esservi introdotta artificialmente. Tutto naturalmente dipende dalla scelta di un luogo che a ciò si presti. Quanto si è detto sullo scoprire e porre in risalto eleganti rapporti di misura, di proporzione e di colore non è che una delle tante vaghe espressioni che servono a velare un concetto impreciso. La frase citata può significare tutto o niente, e non offre alcuna soluzione. Che il vero risultato dello stile naturale appaia più nell'assenza di ogni difetto e incongruenza che nella creazione di particolari meraviglie o miracoli, è una frase più consona alla servile intelligenza delle masse che ai fervidi sogni dell'uomo di genio. Il merito negativo in essa implicito si addice a quella critica zoppicante che, in letteratura, decreterebbe l'apoteosi di Addison. In verità, mentre quella virtù che consiste semplicemente nell'evitare il vizio fa appello direttamente all'intelletto e può in tal modo essere circoscritta in una regola, la virtù più nobile che arde nella creazione può essere appresa soltanto nei risultati. La regola si applica unicamente ai meriti negativi, alle perfezioni che limitano. Al di là di queste, la critica, in quanto arte, può solo suggerire. Da essa possiamo apprendere a creare un Catone, ma invano essa ci direbbe come concepire un Partenone o un Inferno. Comunque, una volta che la cosa sia fatta, la meraviglia compiuta, la capacità di comprensione diviene universale. I sofisti della scuola negativa che per la loro incapacità di creare hanno deriso la creazione, sono ora i primi ad applaudire. Ciò che allo stato embrionale di principio offendeva la loro pavida ragione, non manca mai, nella maturità del suo compimento, di muovere all'ammirazione il loro istintivo senso del bello.
«Le osservazioni dell'autore circa lo stile artificiale», continuò Ellison, «sono meno facilmente confutabili. Una mescolanza di arte pura in uno scenario di giardino vi aggiunge grande bellezza. Questo è esatto; come è esatto il riferimento al senso dell'interesse umano. Il principio espresso è incontrovertibile, ma può esservi dell'altro al di là di questo. Può esservi una meta conforme al principio - una meta irraggiungibile coi mezzi solitamente posseduti dagli individui - che tuttavia, se raggiunta, conferirebbe al giardino paesaggistico un fascino di gran lunga superiore a quello conferitogli da un interesse meramente umano. Un poeta che disponga di non comuni risorse finanziarie potrebbe, pur conservando il necessario concetto d'arte, o di cultura, o - come si esprime il nostro autore - di interesse, potrebbe subito infondere nei suoi progetti una bellezza così nuova e vasta da comunicare il senso di un intervento sovrumano. Si vedrà che nel tradurre in atto tale risultato egli assicura tutti i vantaggi dell'interesse o del disegno, liberando la sua opera dall'asprezza o dal tecnicismo dell'arte terrena. Nei deserti più desolati, nei più selvaggi scenari naturali è manifesta l'arte di un creatore; eppure quest'arte si manifesta solo alla riflessione, non possedendo sotto nessun aspetto la forza spontanea del sentimento. Immaginiamo ora che questo senso della finalità dell'Onnipotente retroceda di un grado per tradursi in qualcosa che sia in armonia o in accordo col senso dell'arte umana, per formare un che di intermedio tra l'uno e l'altro: immaginiamo, ad esempio, un paesaggio in cui si combinino vastità e ordine, la cui bellezza, magnificenza e stranezza unite insieme suggeriscano l'idea di cura, o coltura, o attenzione da parte di esseri superiori, e tuttavia affini all'umanità: in tal caso l'interesse verrà conservato, mentre l'arte di cui l'opera sarà compenetrata verrà ad assumere l'aspetto di una natura intermediaria o secondaria - una natura che non è Dio né un'emanazione di Dio ma che è pur sempre natura nel senso di creazione degli angeli che si librano tra l'uomo e Dio».
Fu consacrando la sua enorme ricchezza all'incarnazione di una visione come questa; nel moto all'aria aperta reso necessario dalla soprintendenza personale dei suoi piani; nello scopo incessante che questi piani offrivano; nell'alta spiritualità di questo scopo; nel disdegno dell'ambizione che gli permetteva di sentire veramente; nelle fonti perenni in cui placava, senza saziarla, la passione dominante del suo animo, la sete di bellezza fu, soprattutto, nella comprensione, squisitamente femminile, di una donna, la cui beltà e il cui amore avvolsero la sua esistenza in una purpurea atmosfera di paradiso, che Ellison credette di trovare, e trovò in effetti, l'esenzione dalle cure consuete dell'umanità con una somma di felicità concreta assai più grande di quanto abbia mai potuto raggiare nelle rapite fantasie di Madame de Staël.
Dispero di poter dare al lettore un'idea distinta delle meraviglie che il mio amico effettivamente compì. Vorrei descriverle, ma sono scoraggiato dalla difficoltà della descrizione ed esito tra il particolare e il generale. Forse la soluzione migliore sarà di fondere questo e quello nei loro estremi.
Il primo passo, per Mr. Ellison, fu naturalmente quello della scelta del luogo; e non appena cominciò a meditarci sopra, fu la natura lussureggiante delle isole del Pacifico a colpire la sua attenzione. in effetti, aveva già deciso di compiere un viaggio nei Mari del Sud, quando una notte di riflessione lo indusse ad accantonare l'idea. «Se fossi un misantropo», disse, «un luogo del genere mi si addirebbe. L'isolamento totale, la sua solitudine, e la difficoltà di accedervi e di partirne sarebbero in tal caso l'incanto degli incanti, ma io non sono ancora un Timone. Amo la quiete, ma non la depressione della solitudine. Debbo riservarmi un certo controllo della misura e della durata del mio riposo. Vi saranno, e spesso, ore in cui avrò bisogno anche di comprensione poetica per ciò che avrò compiuto. Cerchiamo dunque un luogo non distante da una città popolosa, la cui prossimità mi consentirà inoltre di meglio realizzare i miei piani».
Alla ricerca di un luogo adatto e così situato, Ellison viaggiò per diversi anni, consentendomi di accompagnarlo. Migliaia di luoghi per me affascinanti li scartò senza esitazione, per motivi che mi convinsero alla fine che egli era nel giusto.
Giungemmo finalmente su un altipiano di incomparabile fertilità e bellezza che offriva un panorama poco minore in estensione di quello che si gode dall'Etna e che, a parere di Ellison e anche mio, superava la famosa vista di quella montagna in tutti gli elementi più genuini del pittoresco.
«Mi rendo conto», disse il viaggiatore, traendo un sospiro di intensa gioia dopo aver contemplato estatico la scena per quasi un'ora, «so bene che qui, nelle mie condizioni, nove decimi degli uomini più esigenti si riterrebbero pienamente appagati. Questo panorama è davvero splendido, e ne godrei non fosse proprio per l'eccesso del suo splendore. Il gusto di tutti gli architetti che ho conosciuto li porta, per amore della «prospettiva», a costruire case in vetta alle colline. E sbagliano, è evidente. La grandiosità in ogni suo aspetto, ma soprattutto se intesa come estensione, colpisce, eccita, ma alla fine stanca, deprime. Per una scena occasionale, non v'è nulla di meglio: per una veduta costante, nulla di peggio. E, in una veduta costante, ciò che più offende nella grandiosità è l'estensione; ciò che più offende nell'estensione è la distanza. È in contraddizione con il sentimento e con il senso di reclusione, sentimento e senso che cerchiamo di appagare «ritirandoci in campagna». Guardando dall'alto di una montagna non possiamo fare a meno di sentirci fuori del mondo. Chi ha la tristezza nel cuore evita come una pestilenza le prospettive senza fine».
Fu solo al termine del quarto anno delle nostre ricerche che trovammo una località di cui Ellison si dichiarò pienamente soddisfatto. Naturalmente è superfluo dire dove tale località fosse situata. La morte recente del mio amico, facendo sì che al suo «dominio» potessero accedere certe categorie di visitatori, ha dato ad Arnheim una sorta di dignità segreta e raccolta, se non solenne, affine a quella che per tanto tempo distinse Fonthill, ma di qualità infinitamente superiore.
La normale via d'accesso ad Arnheim era il fiume. Il visitatore lasciava la città all'alba. Nel corso della mattinata passava tra sponde di pacata e domestica bellezza, dove pascolavano innumerevoli greggi, i cui bianchi velli chiazzavano il verde vivo dei prati ondulanti. A poco a poco, all'idea di coltivazione si sostituiva quietamente quella di una vita esclusivamente pastorale. Lentamente, questa si dissolveva in un senso di isolamento che a sua volta si mutava in consapevolezza della solitudine. Via via che s'appressava il calar della sera, il canale si faceva più stretto, le rive sempre più scoscese e ammantate di fronde sempre più ricche, più folte e più scure. L'acqua diventava più trasparente. Il suo corso formava mille meandri, per cui mai se ne poteva scorgere la superficie scintillante per più di duecento yarde. Ad ogni istante la barca pareva imprigionata in un cerchio magico di mura impenetrabili e insuperabili di fogliame, dal tetto di raso d'un azzurro oltremare, ma senza pavimento: con grazia mirabile la chiglia ondeggiava su quella di una barca fantasma capovoltasi per chissà qual caso, che sempre galleggiava, in compagnia di quella vera, come a volerla sorreggere. Ora il canale diventava una gola - anche se questo termine non è il più esatto e lo l'uso soltanto perché la lingua non ha parola che meglio rappresenti l'aspetto più tipico, se non il più singolare, della scena. La gola era tale solo per l'altezza e parallelismo delle sponde; non per gli altri suoi connotati. Le pareti del burrone (attraverso il quale l'acqua continuava a fluire limpida e tranquilla) , si elevavano sino a cento e talvolta sino a centocinquanta piedi ed erano talmente inclinate l'una verso l'altra da precludere quasi l'accesso alla luce del giorno, mentre i piumati muschi che lunghi e folti pendevano dai cespugli intrecciantisi in alto davano a tutta la voragine un'aria di funerea malinconia. I meandri divenivano più frequenti e intricati e sembravano spesso ritornare su se stessi, così che il viaggiatore finiva a lungo andare col perdere ogni idea di orientamento. Non solo, ma si sentiva avvolto da un senso squisito di «strano». Permaneva l'idea di natura, ma i suoi caratteri parevano aver subito un mutamento: c'era, in queste sue opere, un'arcana simmetria, una vibrante uniformità, un fatato nitore. Non un ramo secco, non una foglia appassita, non un viottolo fuori posto, non una zolla di terra brulla. L'acqua cristallina lambiva il levigato granito o il musco intatto con una purezza di contorni che deliziava e insieme sbalordiva l'occhio.
Dopo aver percorso per ore i labirinti di questa via fluviale, con l'oscurità che ad ogni momento s'infittiva, una svolta brusca e inattesa improvvisamente sospingeva l'imbarcazione, quasi fosse caduta dal cielo, entro un bacino circolare di notevole estensione, se paragonata con l'ampiezza della gola. Aveva un diametro di circa duecento yarde ed era circondato da ogni parte tranne una - quella immediatamente di fronte al punto d'accesso della barca - da colline pressoché uguali in altezza alle pareti del baratro, ma di aspetto completamente diverso. I loro pendii s'inclinavano dal pelo dell'acqua con un angolo di circa quarantacinque gradi, ed erano ricoperti dalla base alla cima, in ogni loro punto, da un tappeto di fiori in boccio delle tinte più smaglianti; pochissime erano le foglie verdi visibili in quell'ondoso, profumato mare di colore. Il bacino era assai profondo, ma così trasparente era l'acqua che il fondo, che pareva formato da una fitta massa di minuscoli, tondi ciottoli d'alabastro, era perfettamente visibile a tratti: ogni qualvolta, cioè, l'occhio riusciva a non vedere, giù nel profondo del cielo capovolto, l'immagine riflessa delle colline in fiore. Su queste non v'erano alberi di sorta, neppure arbusti. Le impressioni prodotte sull'osservatore erano di ricchezza, di calore, di colore, di quiete, di uniformità, di dolcezza, di delicatezza, d'eleganza, di voluttà e di una quasi miracolosa perfezione di coltura che faceva sognare di una nuova stirpe di fate operose, raffinate, magnifiche ed esigenti; ma appena l'occhio risaliva il pendio versicolore dalla nitida linea ove si congiungeva all'acqua fino alla sommità perduta fra i veli delle nubi sovrastanti, era davvero difficile non immaginare che una cascata panoramica di rubini, zaffiri, opali e onici dorate non precipitasse silenziosa dal cielo.
Il visitatore, uscendo d'improvviso in questa baia dalle tenebre della gola, resta incantato e insieme stordito alla vista del grande globo del sole che egli immaginava già sceso sotto l'orizzonte e che invece gli sta di fronte: unico confine di una prospettiva d'altronde illimitata che appare attraverso un'altra gola che s'apre tra le colline...
Ma a questo punto il viaggiatore abbandona la barca che lo ha condotto fin qui e discende in una leggera canoa d'avorio, tutta adorna dentro e fuori di arabeschi d'un vivido scarlatto. La poppa e la prora della piccola imbarcazione si levano alte, puntute, sull'acqua, sicché la sua forma somiglia a un dipresso a quella di una mezzaluna irregolare. La canoa posa sulla superficie della baia con l'orgogliosa grazia di un cigno. Sul fondo d'ermellino poggia un'unica pagaia di legno satinato, lieve come una piuma, ma non si vedono né nocchieri né rematori. L'ospite non si perda di coraggio: il fato avrà cura di lui. La barca più grande scompare, ed egli rimane solo nella canoa che giace apparentemente immobile in mezzo al lago. Ma, mentre medita sulla rotta da seguire, si accorge di un lieve movimento del naviglio fatato: lentamente, esso ruota su se stesso, puntando infine la prua verso il sole. Prende quindi ad avanzare a velocità moderata, e tuttavia gradualmente crescente, mentre dalle piccole onde increspate che si formano frangendosi contro i suoi fianchi d'avorio sembra sprigionare una melodia soprannaturale; ed è questa, forse, l'unica spiegazione possibile di quella musica consolante eppure malinconica di cui il viaggiatore, rapito, cerca invano l'origine intorno a sé. La canoa procede sicura, avvicinandosi all'ingresso rupestre della prospettiva, di cui lo sguardo ora esplora più distintamente le profondità. Sulla destra si leva una catena di alte colline ammantate di selve selvagge e lussureggianti. Si osserva tuttavia che là dove la sponda si tuffa nell'acqua permane la caratteristica di squisito nitore. Non v'è traccia dei soliti detriti fluviali. Sulla sinistra lo scenario è più dolce e più palesemente artificiale. Qui la riva dolcemente ascende dal fiume e forma un vasto tappeto erboso la cui trama a nulla è più simile che al velluto, e di un verde così brillante da poter reggere il confronto con lo smeraldo più puro. Questo altipiano varia in ampiezza da dieci a trecento yarde e si estende dal fiume a una parete alta cinquanta piedi che si snoda in un'infinità di curve ma sempre seguendo il corso generale del fiume sino a perdersi in lontananza, verso occidente. La parete è fatta di un'unica roccia, compatta e continua, ed è stata tagliata verticalmente nella parete un tempo strapiombante della sponda meridionale del fiume; ma non vi è traccia alcuna di così laboriosa fatica. La pietra cesellata ha il colore dei secoli ed è profusamente adorna di cortine d'edera, caprifoglio, rose di macchia, clematidi. L'uniformità delle linee della parete, nella parte superiore come in quella inferiore, è qua e là felicemente variata da alberi giganteschi, isolati o in piccoli gruppi, sia lungo l'altipiano, sia negli spazi oltre la parete, ma vicinissimi a questa, di modo che spesso i rami (specie del noce nero) ne sporgono tuffando le loro pendule estremità nell'acqua. Più lontano, all'interno del «dominio», la vista non giunge, preclusa com'è da un impenetrabile schermo di fronde.
Tutto ciò si osserva mentre la canoa s'appressa sempre più a quello che ho chiamato l'ingresso della prospettiva. Ma via via che si fa più vicino, esso perde il suo aspetto di gola; si scopre a sinistra una nuova uscita dalla baia, e si nota che in quella direzione la parete continua ad arcuarsi, sempre seguendo il corso generale del fiume. Entro questa nuova apertura lo sguardo non può spingersi molto lontano, perché il fiume, sempre costeggiato dalla parete, piega sempre più a sinistra, finché entrambi sono inga a inarcarsi in ampia, dolcissima curva verso sinistra, come prima costeggiato dalla parete rupestre, mentre un rivo gonfio d'acqua, dipartendosi dal corso principale, si insinua con lieve sciabordio sotto il portale e scompare così alla vista. La canoa s'infila nel braccio minore del fiume e si avvicina al portale. Lentamente, melodiosamente si dischiudono i ponderosi battenti. La barca vi scivola in mezzo, iniziando quindi una rapida discesa entro un vasto anfiteatro interamente cinto da purpuree montagne, lambite tutt'intorno alla base dalle acque scintillanti del fiume.
Ed ecco che d'un tratto tutto il paradiso di Arnheim si rivela, abbagliante, allo sguardo. Sgorga, come onda sorgiva, una maliosa melodia; ci si sente come oppressi dalla sensazione di profumi strani e squisiti; l'occhio coglie, come intrichi di sogni, snelli, slanciati alberi d'Oriente, cespugli frondosi, stormi d'uccelli di porpora e d'oro; e laghi fioriti di gigli, e prati di viole, tulipani, papaveri, giacinti e tuberosehiottiti dal fogliame.
Tuttavia la piccola imbarcazione scivola magicamente nel canale sinuoso, e qui si scopre che la sponda di faccia alla parete rassomiglia a quella che fronteggiava la parete lungo la prospettiva rettilinea. Superbe colline, alte a volte come montagne e coperte di una vegetazione selvaggiamente lussureggiante, delimitano ancora la scena.
Sospinto dolcemente innanzi ma a una velocità leggermente superiore, il viaggiatore, dopo molte brevi svolte, trova la via apparentemente sbarrata da una cancellata gigantesca, o meglio da una porta d'oro brunito, elaboratamente cesellato e sbalzato, sul quale si riflettono direttamente i raggi del sole che ormai rapidamente tramonta con un fulgore che par cingere d'un'aureola di fiamme tutta la circostante foresta. Questo portale si inserisce nell'erta parete che qui sembra tagliare il fiume ad angolo retto. Tra pochi istanti, comunque, ci si avvedrà che il filone della corrente continu; e ruscelli che s'intersecano in lunghi fili d'argento. E, diafanosorgente sopra tutto ciò, prodigiosamente librandosi a mezz'aria, splendida nella rossa luce del sole con i suoi cento loggiati, minareti e pinnacoli, un'immensa architettura semi gotica semi saracena. E par la fantastica creazione cui abbiano posto mano insieme Silfidi, Fate, Geni e Gnomi.
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