Nei cuori dei suoi adoratori d’Occidente, Fidel Castro non era un essere umano in carne e ossa, ma un mito, un idolo, una figura onirica. Era l’Utopia dei Caraibi. Rousseau al potere. La poesia del socialismo tropicale. La fantasia dell’«uomo nuovo» che si incarna tra le acque coralline e la sabbia candida. Era la nuova frontiera di un sogno rivoluzionario che fosse attraente e allegro, non il grigiore lugubre della caserma sovietica uscita dal mito o l’ascetismo conventuale del pauperismo maoista.
Diceva Alberto Ronchey che Castro «non scrive, tiene lunghi discorsi nei quali discioglie pensieri e problemi. Non s’affida quasi mai al mezzo gutenberghiano, lascia fluide le parole con i loro suoni». La parola scritta congela i pensieri, li fa misurare con la durezza della realtà. Il romanticismo dei castristi ignora la realtà. Si lascia abbracciare dal fluido ipnotico delle parole. Se si misurasse con la realtà sarebbe costretto a scoprire che il socialismo dei Tropici è una prigione a cielo aperto, e l’esotismo è un velo per nascondere atrocità da dittatura.
Gli scrittori e gli intellettuali che si sono fatti catturare dalla fantasia castrista hanno messo da parte la realtà per idolatrare il loro mito. I dissidenti in galera sono stati ignorati. Gli esuli che pure erano stati al fianco di Fidel Castro nell’epopea della Sierra Maestra messi in un angolo. Carlos Franqui, un grande rivoluzionario che ha avuto il torto di dissentire dalla stretta repressiva del regime, è stato costretto ad espatriare e nei circoli progressisti del mondo il suo nome è sparito (solo i socialisti di Bettino Craxi e i Radicali in Italia si sono accorti di lui). Gabriel Garcia Marquez, Susan Sontag, Jean-Paul Sartre e altri meno celebri venivano omaggiati nelle manifestazioni dell’Avana, ma non spesero una parola di solidarietà per gli scrittori perseguitati.
Ha scritto Hans Magnus Enzensberger, che pure ha fatto parte della folta schiera dei «pellegrini politici» che avevano preso Cuba come meta privilegiata di turismo rivoluzionario: «All’Avana incontrai alcuni comunisti negli hotel per stranieri che non avevano la più pallida idea che nei quartieri operai la popolazione doveva fare la fila di due ore per un pezzo di pizza, nel frattempo i turisti, nelle loro stanze d’hotel, discutevano di Lukács».
Quando un prigioniero politico, Orlando Zapata Tamayo, si è lasciato morire in carcere dopo 85 giorni di sciopero della fame per protestare contro le condizioni inumane in cui il regime di Castro ha costretto i dissidenti, non un parola di pietà si è alzata dai sostenitori dell’esotismo socialista a Cuba. Nel 2005, al termine di uno dei processi farsa con cui la dittatura amava procedere alle sue «epurazioni», le squadracce del regime trascorsero una notte a malmenare i dissidenti che protestavano, Gianni Vattimo ebbe l’ardire di scrivere che «il popolo, indignato con atti di tradimento così sfacciato, è intervenuto con la sua espressione di fervore patriottico»: nessuno si indignò in Italia per queste enormità, molto cool.
Attorno alla figura di Castro si creò tra gli intellettuali, gli artisti, gli scrittori, una corrente miracolistica che stingeva molto spesso nella collaudata retorica del culto della personalità. Per Sartre Castro e Che Guevara, proiettati verso il paradiso del socialismo da realizzare, erano sempre svegli e vigili: «Il dormire è per questi uomini una routine dalla quale si erano più o meno liberati». E qualcosa di questa insonnia rivoluzionaria doveva essere vera se perfino Paolo Spriano, durante un suo viaggio a Cuba in cui pure non lesinò larvate espressioni critiche per una rivoluzione in cui l’Internazionale stava per «trasformarsi in un ritmo ballabile», aveva scritto: «Qui non dorme nessuno, si direbbe».
Nell’epopea castrista sono da ricordare i film di propaganda di Michael Moore, le interminabili interviste devote di Oliver Stone e di Gianni Minà in cui Castro poteva sfogarsi nei suoi comizi fluviali, Norman Mailer che vedeva in Castro la «dimostrazione che esistono degli eroi nel mondo», «il fluire della vita nelle vene», «come se il fantasma di Cortés fosse apparso nel nostro secolo cavalcando il cavallo bianco di Zapata».
E la realtà? Non doveva esistere. Se veniva incarcerato come controrivoluzionario il poeta Heberto Padilla, che per essere liberato avrebbe dovuto sottoscrivere una «confessione» in cui ammetteva di aver avuto contatti con K.S.Karol un comunista onesto e coraggioso che denunciava apertamente la repressione del regime, lo scrittore García Márquez non rinunciava alle sue cerimonie con Castro.
O se incarceravano per 19 anni Armando Valladares, o il regista Amaro Gomez, condannato a 8 anni di carcere per essersi procurato clandestinamente una copia dell’Arcipelago Gulag di Solženicyn. E non esistevano nemmeno nel mito i «maricones», gli omosessuali «immorali» rinchiusi nei campi di lavoro forzato ribattezzato dalla fantasia guevarista Umap, Unità Militari di Aiuto alla Produzione. Il mito castrista non permetteva simili, fastidiose incursioni della realtà. Hasta siempre.
Pierluigi Battista, Il Corriere della Sera 27 novembre 2017
Diceva Alberto Ronchey che Castro «non scrive, tiene lunghi discorsi nei quali discioglie pensieri e problemi. Non s’affida quasi mai al mezzo gutenberghiano, lascia fluide le parole con i loro suoni». La parola scritta congela i pensieri, li fa misurare con la durezza della realtà. Il romanticismo dei castristi ignora la realtà. Si lascia abbracciare dal fluido ipnotico delle parole. Se si misurasse con la realtà sarebbe costretto a scoprire che il socialismo dei Tropici è una prigione a cielo aperto, e l’esotismo è un velo per nascondere atrocità da dittatura.
Gli scrittori e gli intellettuali che si sono fatti catturare dalla fantasia castrista hanno messo da parte la realtà per idolatrare il loro mito. I dissidenti in galera sono stati ignorati. Gli esuli che pure erano stati al fianco di Fidel Castro nell’epopea della Sierra Maestra messi in un angolo. Carlos Franqui, un grande rivoluzionario che ha avuto il torto di dissentire dalla stretta repressiva del regime, è stato costretto ad espatriare e nei circoli progressisti del mondo il suo nome è sparito (solo i socialisti di Bettino Craxi e i Radicali in Italia si sono accorti di lui). Gabriel Garcia Marquez, Susan Sontag, Jean-Paul Sartre e altri meno celebri venivano omaggiati nelle manifestazioni dell’Avana, ma non spesero una parola di solidarietà per gli scrittori perseguitati.
Ha scritto Hans Magnus Enzensberger, che pure ha fatto parte della folta schiera dei «pellegrini politici» che avevano preso Cuba come meta privilegiata di turismo rivoluzionario: «All’Avana incontrai alcuni comunisti negli hotel per stranieri che non avevano la più pallida idea che nei quartieri operai la popolazione doveva fare la fila di due ore per un pezzo di pizza, nel frattempo i turisti, nelle loro stanze d’hotel, discutevano di Lukács».
Quando un prigioniero politico, Orlando Zapata Tamayo, si è lasciato morire in carcere dopo 85 giorni di sciopero della fame per protestare contro le condizioni inumane in cui il regime di Castro ha costretto i dissidenti, non un parola di pietà si è alzata dai sostenitori dell’esotismo socialista a Cuba. Nel 2005, al termine di uno dei processi farsa con cui la dittatura amava procedere alle sue «epurazioni», le squadracce del regime trascorsero una notte a malmenare i dissidenti che protestavano, Gianni Vattimo ebbe l’ardire di scrivere che «il popolo, indignato con atti di tradimento così sfacciato, è intervenuto con la sua espressione di fervore patriottico»: nessuno si indignò in Italia per queste enormità, molto cool.
Attorno alla figura di Castro si creò tra gli intellettuali, gli artisti, gli scrittori, una corrente miracolistica che stingeva molto spesso nella collaudata retorica del culto della personalità. Per Sartre Castro e Che Guevara, proiettati verso il paradiso del socialismo da realizzare, erano sempre svegli e vigili: «Il dormire è per questi uomini una routine dalla quale si erano più o meno liberati». E qualcosa di questa insonnia rivoluzionaria doveva essere vera se perfino Paolo Spriano, durante un suo viaggio a Cuba in cui pure non lesinò larvate espressioni critiche per una rivoluzione in cui l’Internazionale stava per «trasformarsi in un ritmo ballabile», aveva scritto: «Qui non dorme nessuno, si direbbe».
Nell’epopea castrista sono da ricordare i film di propaganda di Michael Moore, le interminabili interviste devote di Oliver Stone e di Gianni Minà in cui Castro poteva sfogarsi nei suoi comizi fluviali, Norman Mailer che vedeva in Castro la «dimostrazione che esistono degli eroi nel mondo», «il fluire della vita nelle vene», «come se il fantasma di Cortés fosse apparso nel nostro secolo cavalcando il cavallo bianco di Zapata».
E la realtà? Non doveva esistere. Se veniva incarcerato come controrivoluzionario il poeta Heberto Padilla, che per essere liberato avrebbe dovuto sottoscrivere una «confessione» in cui ammetteva di aver avuto contatti con K.S.Karol un comunista onesto e coraggioso che denunciava apertamente la repressione del regime, lo scrittore García Márquez non rinunciava alle sue cerimonie con Castro.
O se incarceravano per 19 anni Armando Valladares, o il regista Amaro Gomez, condannato a 8 anni di carcere per essersi procurato clandestinamente una copia dell’Arcipelago Gulag di Solženicyn. E non esistevano nemmeno nel mito i «maricones», gli omosessuali «immorali» rinchiusi nei campi di lavoro forzato ribattezzato dalla fantasia guevarista Umap, Unità Militari di Aiuto alla Produzione. Il mito castrista non permetteva simili, fastidiose incursioni della realtà. Hasta siempre.
Pierluigi Battista, Il Corriere della Sera 27 novembre 2017
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