Il libro era stato pubblicato nel 1949, coronato da un successo planetario, ma nelle mani del Primo ministro inglese cascò solo nel 1953. Winston Churchill era stato eletto nel 1951, sotto la reggenza di Giorgio VI.
In un momento di pausa, sgranocchiando il sigaro nello studio al 10 di Downing Street, Churchill finì di leggere 1984. Proprio quell’anno, qualche mese dopo, Churchill avrebbe ottenuto il Premio Nobel per la letteratura, un’onorificenza che George Orwell non si sognava neanche.
Terminata la lettura, il Primo ministro prese la penna, appuntò le sue impressioni. «Un libro davvero notevole». Non tutti la pensavano come lui. Secondo Palmiro Togliatti, che recensì il volume nel 1950 dietro la maschera di Roderigo di Castiglia, «uno scritto come 1984 è una buffonata informe e noiosa, giudicabile semmai come strumento di lotta che uno spione ha voluto aggiungere al suo arsenale anticomunistico».
Orwell non riuscì a ringraziare Churchill per le belle parole: era morto nel 1950, per l’aggravarsi di una tubercolosi polmonare, dopo aver impalmato Sonia Bronwell e aver dettato le ultime volontà: «desidero che dopo la mia morte non mi vengano dedicate funzioni commemorative e che di me non sia scritta alcuna biografia».
«Osservati in superficie, i due erano affatto diversi. Churchill era più robusto, in ogni senso: nato 28 anni prima di Orwell, visse 15 anni più di lui. Nelle questioni cruciali, tuttavia, agirono in assoluta sintonia, come gemelli.
Negli stessi decenni si occuparono delle stesse questioni – Hitler e il fascismo, Stalin e il comunismo, gli Usa e la loro prevaricazione sulla Gran Bretagna – con la forza del loro intelletto e con la qualità dei loro scritti, dando giudizi spesso criticati dai contemporanei. Difesero i principi della democrazia liberale: la libertà di pensiero, di parola, di associazione».
Questa, in sintesi, la tesi di Thomas E. Ricks, giornalista pluripremiato – un paio di Pulitzer per le inchieste compiute con i colleghi del Wall Street Journal e del Washington Post – che ha appena pubblicato per Penguin Press Churchill and Orwell. The Fight for Freedom, rinnovando il genere delle «vite parallele» di Plutarco.
Il punto cruciale della coscienza politica di Orwell, laburista convinto, accade durante la Guerra di Spagna: si accorge «quale pericolo fatale sia un antifascismo puramente negativo» e assiste agli «scontri fratricidi all’interno della sinistra» (Guido Bulla).
Quando la Left Review, l’organo dell’Internazionale degli scrittori sponsorizzato dal Comintern, nel 1937 gli invia un questionario chiedendogli se «è favorevole o contrario a Franco e al fascismo?», lo scrittore sbotta.
«Volete piantarla di mandarmi queste stronzate? Io non sono uno dei vostri finocchietti alla moda come Auden e Spender. Io so cosa sta succedendo, cosa succede ormai da mesi, da parte governativa, e cioè che il fascismo viene imposto ai lavoratori spagnoli con il pretesto della resistenza al fascismo; so anche che da maggio si è instaurato il regno del terrore e che tutte le galere traboccano di detenuti».
Questo è l’inizio della «svolta». Nel 1940, l’anno in cui Churchill diventa Primo ministro e l’Inghilterra entra in guerra contro Hitler, Orwell esulta, lascia il Partito laburista indipendente, tenta di arruolarsi e arrota la penna sputtanando i pacifisti, «il patto nazisovietico ha posto fine al gioco del te l’avevo detto con cui gli scrittori di sinistra si erano tanto proficuamente abbandonati».
I pacifisti di sinistra, ovviamente, rispondono per le rime al corrosivo autore de La fattoria degli animali, accusandolo di fare il gioco dei «magnati dell’industria navale» e uscendosene con considerazioni pazzesche, lette col senno del dopo, come questa, del critico laureato Derek Stanley Savage, anno di grazia 1942: «Non bisogna condannare Hitler ma comprenderlo. A me Hitler non piace, ma è comunque più vero di Chamberlain, Churchill, Cripps».
A Orwell, in fondo, il conservatore Churchill, l’uomo dal cinismo corroborante, che riconobbe in Mussolini «il più grande legislatore vivente» e in Gandhi «un fachiro mezzo nudo», piaceva.
Una dimostrazione indiretta è l’Indice dei nomi del «Meridiano» Mondadori che raduna i Romanzi e saggi di Orwell: Churchill è il personaggio più citato insieme a Stalin, Charles Dickens e Adolf Hitler. Il sugo teorico del libro di Ricks è che Orwell e Churchill sono figure fondamentali nella «lotta per mostrare le cose così come sono – l’intuizione decisiva della civiltà occidentale.
In poche parole: la realtà oggettiva esiste, il buon senso può percepirla e le persone possono cambiare opinione di fronte alla verità dei fatti». Insomma, Orwell e Churchill costituirebbero l’antidoto al fondamentalismo galoppante e all’ideologia dilagante.
Una cosa è certa: nel 1945, terminata la Seconda guerra, quando Churchill perde le elezioni contro il laburista Clement Attlee, Orwell, ricco di fama, comincia a ritirarsi stagionalmente alle Ebridi. A Jura, dove il gelo benedice la solitudine, Orwell ha ricavato il suo rifugio fuori dal mondo, un argine alla grandinata della Storia. Con lui, sempre, c’è Richard Horatio, il figlio adottato nel 1944. Lì, a Jura, Orwell concepisce e scrive 1984, che è, in fondo, un memorabile inno alla scrittura.
«Era un solitario fantasma che proclamava una verità che nessuno avrebbe mai udita. Ma per tutto il tempo impiegato a proclamarla, in qualche misterioso modo la continuità non sarebbe stata interrotta. Non era col farsi udire, ma col resistere alla stupidità che si sarebbe potuto portare innanzi la propria eredità di uomo».
Quando deve trovare un nome al suo eroe solitario, solo contro il Grande Fratello, contro tutti, Orwell decide di chiamarlo Winston. Come Churchill.
Davide Brullo, Il Giornale 3 settembre 2017
fonte: Fondazione Luigi Einaudi
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