Su questo tema la cultura libertaria non ha espresso nel tempo una posizione univoca; tuttavia negli ultimi anni ha prevalso la tesi dell’illegittimità.
Preliminarmente è opportuno delimitare con precisione l’oggetto dell’analisi. La proprietà intellettuale riguarda beni intangibili quali le creazioni della mente. Qui si fa riferimento in particolare a quattro diverse modalità, secondo le classificazioni accolte negli ordinamenti giuridici contemporanei. Esse sono: i diritti d’autore, i brevetti, i marchi e i segreti industriali. I primi riguardano prodotti della creatività umana quali scritti (libri, articoli), film, canzoni, opere teatrali, dipinti, programmi informatici ecc. I secondi sono collegati a invenzioni che si traducono in nuovi prodotti industriali (strumenti meccanici) o in nuovi procedimenti di fabbricazione di prodotti già conosciuti, dunque che si traducono in un uso pratico, all’interno del processo produttivo. I marchi sono simboli, disegni, parole o frasi che identificano i beni o i servizi di un’azienda. Infine i segreti industriali concernono formule o informazioni che garantiscono all’impresa un vantaggio competitivo a condizione che rimangano segrete.
In che cosa consiste esattamente il diritto riservato all’autore dalle legislazioni contemporanee? Prendendo ad esempio lo scrittore di un romanzo, egli in sostanza ha diritto 1) su ogni versione fisica del suo lavoro (libro) costituito da quella data sequenza di parole 2) di vendere il libro, presentarlo pubblicamente e incassarne (in tutto o in parte, a seconda degli accordi con eventuali editori) i proventi e 3) che l’acquirente non faccia una copia di esso (da cui il termine copyright: solo l’autore può riprodurre il suo stesso lavoro). L’acquirente possiede solo la copia fisica del libro, quelle date pagine e quel dato inchiostro, non “il romanzo” in se stesso. Per quanto riguarda invece i brevetti, l’inventore ha diritto o di sfruttare in esclusiva la sua invenzione o di essere remunerato da altri soggetti che desiderassero utilizzarla. Circa i marchi, il vincolo è rappresentato dal divieto di utilizzazione per un soggetto diverso dal titolare. Mentre per i segreti industriali il divieto è di trafugarli e impiegarli. Sono soprattutto le prime due modalità a porre problemi per il libertarismo, mentre le limitazioni sull’utilizzazione di segreti industriali e marchi altrui sono più o meno condivise.
Come detto, i libertari sull’argomento si dividono. Favorevoli ai diritti di proprietà intellettuale sulla base di premesse giusnaturaliste, cioè seguendo l’approccio dei diritti, sono esponenti come A.J. Galambos, J.N. Schulman, D. Kelley e A. Rand. Essi giustificano la propria posizione partendo dal tradizionale assioma di autoproprietà: la mente appartiene all’individuo, e dunque appartengono a esso anche i prodotti della mente, le creazioni intellettuali.
Invece autori come L. von Mises e D. Friedman (e, nell’ambito del liberalismo, R. Posner) hanno svolto la loro difesa su un fondamento utilitarista: la protezione dei diritti degli ideatori, dunque la possibilità di trarre vantaggio economico dalle proprie creazioni, incentiva la realizzazione di una maggiore quantità di invenzioni artistiche e tecniche, che si riverbera positivamente sulla ricchezza e l’utilità complessive.
Contrari sono invece autori quali S. Kinsella, J.A. Tucker, R.T. Long, W. McElroy, T. Palmer, H. Lepage, B. Bouckaert, W. Block e B. Shaffer. M. Rothbard, pur collocabile fra i secondi, ammetteva una forma limitata di proprietà intellettuale come conseguenza del concetto di “fascio di diritti”, come si vedrà più avanti.
I libertari contrari al riconoscimento della proprietà intellettuale fondano la propria posizione sulla distinzione fra beni tangibili e intangibili con riferimento alla scarsità.
Sui beni tangibili, asseriscono tali autori, vanno creati diritti di proprietà perché tali beni sono scarsi (fisicamente limitati). A seguito di tale caratteristica, se non vi fossero chiari confini di proprietà fra beni, sorgerebbero conflitti fra gli uomini per il loro uso. Per svolgere questa funzione, i diritti di proprietà devono essere visibili e giusti. Visibili nel senso che devono essere oggettivi, cioè accertabili senza ambiguità. Giusti nel senso che devono rispettare il criterio di assegnazione lockiano del “primo occupante”. I diritti di proprietà intellettuale invece non riguardano risorse scarse e non sorgono sulla base del criterio del primo occupante.
Esaminiamo il primo aspetto. Le idee non sono scarse: «il mio impiego del Teorema di Pitagora non riduce in alcun modo il tuo». Relativamente ai brevetti, «se io invento una tecnica per
raccogliere il cotone, il fatto che tu raccolga il cotone con questa tecnica non comporta che la sottrai a me. […] Il tuo uso non esclude il mio uso», non c’è conflitto. Lo stesso si può dire per il diritto d’autore: «se tu copi un libro che ho scritto io, io ho ancora il libro originale (tangibile), e “ho” anche la sequenza di parole che costituisce il libro». Le opere d’autore non sono scarse come può esserlo un appezzamento di terreno. È la replicabilità, cioè la possibilità di copiare e condividere all’infinito, la caratteristica che rende un bene non scarso, e dunque non oggetto di proprietà. Se un’idea (o la musica prodotta, o un file sul web ecc.) è stata resa pubblica, cioè se altre persone si sono impossessate di essa, il creatore non ne viene privato (né alcun altro); quell’idea si è replicata (moltiplicata) senza costi. Non c’è rivalità nella proprietà di essa. In breve: un libro è un bene scarso, è oggetto di proprietà e ha un prezzo; le idee in esso contenute no, e devono poter essere copiate senza limitazioni. I beni non-scarsi non sono mezzi, ma guide, per l’azione umana. «La conoscenza non è una cosa concreta che un individuo può controllare; è un universale, che esiste nella mente e nella proprietà di altre persone, e chi ha generato quella conoscenza non ha una legittima sovranità su di esse. Non puoi essere proprietario della conoscenza senza essere proprietario delle persone».
Invece, continuano questi autori, è proprio la creazione di un diritto di proprietà sulle idee a creare artificialmente una scarsità dove prima non esisteva. Diritti d’autore e brevetti danno vita a monopoli non giustificati.
Riconoscere il diritto di proprietà intellettuale significa attribuire artificialmente al creatore un monopolio su alcuni beni specifici; o, da un altro punto di vista, significa riconoscere al creatore diritti parziali di controllo sulla proprietà di ogni altro individuo (dunque renderlo comproprietario), perché egli può proibire loro di svolgere certe azioni con la loro proprietà: ad esempio, l’autore X può impedire a Y di scrivere una certa sequenza di parole sulle sue (di Y) pagine con il suo inchiostro. L’attribuzione di diritti di proprietà intellettuale dunque riduce i diritti di proprietà sulle risorse tangibili, cioè i diritti giusti.
I libertari che sostengono questo punto di vista ritengono che l’equivoco nasca dal concetto di “creazione”. Il criterio per l’acquisizione della proprietà non è la “creazione”, cioè il lavoro in astratto, bensì l’occupazione di alcune cose tangibili, trasformando le quali si produce magari qualcosa di nuovo. Utilizzando l’esempio proposto da Kinsella, se io forgio una spada, ho prima prelevato le materie prime necessarie sotto terra; dunque sono proprietario di quelle materie prime. Successivamente costruisco la spada; la spada è mia perché erano miei i fattori produttivi, non c’è bisogno di ricorrere al fatto della “creazione” per giustificare la proprietà della spada. La conferma di ciò è che se io costruisco la spada con i tuoi metalli, dunque ne sono il “creatore”, non sono il proprietario della spada. La creazione non è una condizione né necessaria né sufficiente per la proprietà; il ruolo cruciale è svolto dalla “prima occupazione”. Il lavoro indica che colui che utilizza la risorsa la possedeva già, ma non è la scaturigine della proprietà.
Vi è poi una seconda obiezione rivolta ai sostenitori della proprietà intellettuale. Le leggi vigenti proteggono solo certi tipi di creazioni; ma la distinzione tra quelle meritevoli di protezione e quelle che non lo sono è necessariamente arbitraria. Ad esempio, le verità filosofiche o matematiche non vengono protette dalle leggi attuali, in base al tacito criterio di ragionevolezza secondo cui, se ogni nuova frase o verità filosofica fossero considerate proprietà del suo creatore, gli scambi ed ogni relazione sociale verrebbero paralizzati. Per questa ragione i brevetti possono essere riconosciuti solo per le “applicazioni pratiche” delle idee ma non per le idee più astratte o teoretiche. La Rand concorda con questo diverso trattamento, distinguendo tra scoperta e invenzione, essendo la prima non brevettabile, la seconda sì. A suo avviso, infatti, una scoperta rappresenterebbe solo lo svelamento di una legge di natura già esistente, non creata dallo scopritore. Ma, obiettano i critici, la distinzione fra scoperta e invenzione non è sempre chiara. Infatti, anche nel caso delle invenzioni, l’inventore non crea materia nuova bensì la manipola e/o la riassembla in accordo con le leggi fisiche. Dunque, perché un ingegnere dovrebbe essere remunerato e un fisico no?
Naturalmente si potrebbe risolvere il problema non introducendo alcuna distinzione e considerando tutto proprietà intellettuale, ma si arriverebbe, come si è già visto, alla paralisi degli scambi, o alle assurdità alla Galambos, che metteva un nichelino in una scatola ogni volta che
pronunciava la parola “libertà” per pagare la royalty ai discendenti di Thomas Paine, ritenuto l’“inventore” del termine.
Una terza obiezione ai favorevoli su basi giusnaturaliste riguarda la temporaneità e l’arbitrarietà dei termini temporali stabiliti. Se un diritto di proprietà esiste, esiste per sempre, non temporaneamente. In secondo luogo, perché 20 anni per i brevetti e 70 dopo il decesso del creatore per i diritti d’autore, e non 19 o 71? Affermare che 19 o 71 sarebbero troppo poco o troppo non ha più valore che affermare che il prezzo di un litro di latte è troppo alto o troppo basso. Per quanto riguarda la durata, estenderla all’infinito comporterebbe, con il passare dei decenni e dei secoli, restrizioni sempre più insopportabili sugli atti che le persone possono compiere; ad esempio, «nessuno potrebbe costruire – o anche usare - una lampadina senza prima ottenere il permesso dagli eredi di Edison».
Rothbard era disposto a tollerare una limitatissima forma di proprietà intellettuale se frutto di un contratto, in relazione al suo argomento del “fascio di diritti” e della relativa “riserva” di essi. Su una singola risorsa tangibile possono essere distinti più diritti. Come il proprietario di un terreno può garantire l’estrazione di petrolio a una compagnia ma tenere per sé i diritti sulla superficie, così l’inventore di una nuova trappola per topi può vendere il diritto alla proprietà per gli acquirenti ma non il diritto di riprodurla (“riserva di diritti”), introducendo questa condizione nel contratto. Anche le terze parti che a loro volta acquistano o ricevono in regalo il bene, pure se non hanno sottoscritto un contratto con l’inventore, sono vincolate da tale limite perché «nessuno può vantare sopra un oggetto un titolo di proprietà più ampio di quello che gli è stato effettivamente trasferito».
Le obiezioni alla soluzione di Rothbard si sono concentrate sulla questione dei rapporti con i terzi. Supponiamo che Jones stipuli un contratto con Smith, in cui si stabilisce che Jones rivela un segreto a Smith purché questi non lo divulghi. Un simile contratto è legittimo, e Jones può perseguire Smith in caso di violazione. Tuttavia Jones non può perseguire tutti coloro che nel mondo sono ora a conoscenza del segreto, qualora lo rivelino ad altri; non ha stipulato contratti con loro, non ha diritti di proprietà su di loro, sulle idee che stanno nelle loro teste o sulle loro proprietà. Lo stesso ragionamento si può applicare al copyright: il venditore di un libro può accordarsi con gli acquirenti affinché essi non lo riproducano, ma non può impedire tale azione ad altri che eventualmente decidano di compierla.
Tuttavia per la correttezza di tale conclusione va presa in considerazione la modalità di conoscenza dell’oggetto in questione. In teoria in un libro il vincolo è inseribile: si può stampare su di esso un avviso di diritto d’autore introdotto per contratto (i critici qui obiettano che si affermerebbe una concezione del contratto insostenibile, in quanto il contratto dovrebbe vincolare solo le parti che lo stipulano). Dunque un terzo che, ad esempio, abbia trovato una copia del libro su una panchina, è a conoscenza della restrizione esistente. I critici però si soffermano su altre modalità di conoscenza dell’oggetto in questione. Se, ad esempio, un terzo vede semplicemente come è fatta la trappola per topi in mano all’acquirente, allora la può riprodurre senza essere perseguito. Per Rothbard ancora no, perché il titolo del terzo sulla trappola – la proprietà delle idee nella sua testa – non può essere maggiore del titolo dell’acquirente. Per i critici sì, perché il terzo non vede, perché non può accedere a, le idee nella testa dell’acquirente, ma solo l’oggetto in mano all’acquirente, e le idee si formano successivamente nella sua testa. In secondo luogo, e si torna così all’idea iniziale di base, viene ribadita la tesi secondo cui non si possiedono le idee, così come il lavoro, ma solo gli oggetti tangibili scarsi tramite appropriazione originaria.
Va precisato comunque che Rothbard era recisamente contrario ai brevetti. Egli riteneva che in un mercato libero le tradizionali norme penali fossero sufficienti a garantire il diritto di proprietà: una persona a cui vengono prelevati, da casa sua o dal suo ufficio (cioè rubati), un suo progetto o un suo nuovo bene, prima che vengano realizzati o messi in vendita, è già protetta dalla norma che vieta il furto. Non vi è altra protezione legittima. Lo stesso argomento è applicabile ai segreti commerciali.
All’approccio utilitarista (non disincentivare le creazioni intellettuali ai fini di una maggiore ricchezza complessiva) sono stati contrapposti i seguenti argomenti. Innanzi tutto l’impossibilità dei confronti interpersonali di utilità. Secondariamente il fatto che l’aumento della ricchezza
complessiva non giustifica la violazione dei diritti di proprietà di alcune persone; in questo caso il diritto di disporre dei propri beni fisici (ad esempio carta e inchiostro) come meglio si crede. In terzo luogo non è affatto dimostrato che la difesa della proprietà intellettuale aumenti la ricchezza e/o il benessere collettivi. Per gran parte della storia umana il copyright non è esistito, eppure ciò non ha impedito una vastissima realizzazione di letteratura, musica e arti di altissimo livello. Shakespeare non ha avuto bisogno del copyright per scrivere i suoi capolavori; di più: se fosse esistito il copyright, egli non avrebbe potuto utilizzare storie e personaggi inventati da altri autori e che egli rielaborò in maniera originale.
Inoltre, in assenza di copyright, l’editore che pubblica per primo continua ad avere un vantaggio consistente, di tipo temporale. Gli altri editori pubblicherebbero il medesimo libro solo se questo si rivelasse un successo, ma se è così vuol dire che il primo editore ha già incassato somme consistenti. Le statistiche dicono che l’80% dei profitti di un libro si realizza nei primi tre mesi.
Per quanto riguarda i brevetti, essi impediscono che altri possano migliorare l’invenzione originaria, con notevole danno per il benessere collettivo. I fratelli Wright non avrebbero mai potuto realizzare il loro primo aeroplano se non avessero potuto utilizzare e migliorare le idee di predecessori quali Cayley e Lilienthal. Gli studi econometrici poi non forniscono conclusioni nette a favore della tesi del maggior benessere collettivo derivante dall’esistenza dei brevetti. Probabilmente si determinerebbero più innovazioni se tali leggi non esistessero; forse le imprese impiegherebbero più risorse in ricerca e sviluppo se non dovessero spenderle nell’acquisto dei brevetti; o avrebbero maggiori incentivi a innovare se non potessero contare su un monopolio di venti anni sulle loro invenzioni. In ogni caso non esiste uno standard unico e oggettivo in base al quale giudicare se le spese di ricerca sono “troppo poche”, “troppe” o “giuste”.
Si è detto all’inizio che per i libertari i segreti commerciali e l’esclusività dei marchi sono complessivamente legittimi. L’appropriazione indebita di un segreto commerciale può essere bloccata tramite un’ingiunzione o successivamente sanzionata con il risarcimento dei danni. Circa l’utilizzazione di un marchio altrui, invece, per Palmer rappresenta una violazione dei diritti del detentore del marchio, mentre per Kinsella una violazione dei diritti del consumatore, che viene frodato dal contraffattore.
P. Vernaglione, Il libertarismo applicato ai singoli temi - Proprietà intellettuale, in Rothbardiana,: http://rothbard.altervista.org/temi-lib/proprieta-intellettuale.doc
Preliminarmente è opportuno delimitare con precisione l’oggetto dell’analisi. La proprietà intellettuale riguarda beni intangibili quali le creazioni della mente. Qui si fa riferimento in particolare a quattro diverse modalità, secondo le classificazioni accolte negli ordinamenti giuridici contemporanei. Esse sono: i diritti d’autore, i brevetti, i marchi e i segreti industriali. I primi riguardano prodotti della creatività umana quali scritti (libri, articoli), film, canzoni, opere teatrali, dipinti, programmi informatici ecc. I secondi sono collegati a invenzioni che si traducono in nuovi prodotti industriali (strumenti meccanici) o in nuovi procedimenti di fabbricazione di prodotti già conosciuti, dunque che si traducono in un uso pratico, all’interno del processo produttivo. I marchi sono simboli, disegni, parole o frasi che identificano i beni o i servizi di un’azienda. Infine i segreti industriali concernono formule o informazioni che garantiscono all’impresa un vantaggio competitivo a condizione che rimangano segrete.
In che cosa consiste esattamente il diritto riservato all’autore dalle legislazioni contemporanee? Prendendo ad esempio lo scrittore di un romanzo, egli in sostanza ha diritto 1) su ogni versione fisica del suo lavoro (libro) costituito da quella data sequenza di parole 2) di vendere il libro, presentarlo pubblicamente e incassarne (in tutto o in parte, a seconda degli accordi con eventuali editori) i proventi e 3) che l’acquirente non faccia una copia di esso (da cui il termine copyright: solo l’autore può riprodurre il suo stesso lavoro). L’acquirente possiede solo la copia fisica del libro, quelle date pagine e quel dato inchiostro, non “il romanzo” in se stesso. Per quanto riguarda invece i brevetti, l’inventore ha diritto o di sfruttare in esclusiva la sua invenzione o di essere remunerato da altri soggetti che desiderassero utilizzarla. Circa i marchi, il vincolo è rappresentato dal divieto di utilizzazione per un soggetto diverso dal titolare. Mentre per i segreti industriali il divieto è di trafugarli e impiegarli. Sono soprattutto le prime due modalità a porre problemi per il libertarismo, mentre le limitazioni sull’utilizzazione di segreti industriali e marchi altrui sono più o meno condivise.
Come detto, i libertari sull’argomento si dividono. Favorevoli ai diritti di proprietà intellettuale sulla base di premesse giusnaturaliste, cioè seguendo l’approccio dei diritti, sono esponenti come A.J. Galambos, J.N. Schulman, D. Kelley e A. Rand. Essi giustificano la propria posizione partendo dal tradizionale assioma di autoproprietà: la mente appartiene all’individuo, e dunque appartengono a esso anche i prodotti della mente, le creazioni intellettuali.
Invece autori come L. von Mises e D. Friedman (e, nell’ambito del liberalismo, R. Posner) hanno svolto la loro difesa su un fondamento utilitarista: la protezione dei diritti degli ideatori, dunque la possibilità di trarre vantaggio economico dalle proprie creazioni, incentiva la realizzazione di una maggiore quantità di invenzioni artistiche e tecniche, che si riverbera positivamente sulla ricchezza e l’utilità complessive.
Contrari sono invece autori quali S. Kinsella, J.A. Tucker, R.T. Long, W. McElroy, T. Palmer, H. Lepage, B. Bouckaert, W. Block e B. Shaffer. M. Rothbard, pur collocabile fra i secondi, ammetteva una forma limitata di proprietà intellettuale come conseguenza del concetto di “fascio di diritti”, come si vedrà più avanti.
I libertari contrari al riconoscimento della proprietà intellettuale fondano la propria posizione sulla distinzione fra beni tangibili e intangibili con riferimento alla scarsità.
Sui beni tangibili, asseriscono tali autori, vanno creati diritti di proprietà perché tali beni sono scarsi (fisicamente limitati). A seguito di tale caratteristica, se non vi fossero chiari confini di proprietà fra beni, sorgerebbero conflitti fra gli uomini per il loro uso. Per svolgere questa funzione, i diritti di proprietà devono essere visibili e giusti. Visibili nel senso che devono essere oggettivi, cioè accertabili senza ambiguità. Giusti nel senso che devono rispettare il criterio di assegnazione lockiano del “primo occupante”. I diritti di proprietà intellettuale invece non riguardano risorse scarse e non sorgono sulla base del criterio del primo occupante.
Esaminiamo il primo aspetto. Le idee non sono scarse: «il mio impiego del Teorema di Pitagora non riduce in alcun modo il tuo». Relativamente ai brevetti, «se io invento una tecnica per
raccogliere il cotone, il fatto che tu raccolga il cotone con questa tecnica non comporta che la sottrai a me. […] Il tuo uso non esclude il mio uso», non c’è conflitto. Lo stesso si può dire per il diritto d’autore: «se tu copi un libro che ho scritto io, io ho ancora il libro originale (tangibile), e “ho” anche la sequenza di parole che costituisce il libro». Le opere d’autore non sono scarse come può esserlo un appezzamento di terreno. È la replicabilità, cioè la possibilità di copiare e condividere all’infinito, la caratteristica che rende un bene non scarso, e dunque non oggetto di proprietà. Se un’idea (o la musica prodotta, o un file sul web ecc.) è stata resa pubblica, cioè se altre persone si sono impossessate di essa, il creatore non ne viene privato (né alcun altro); quell’idea si è replicata (moltiplicata) senza costi. Non c’è rivalità nella proprietà di essa. In breve: un libro è un bene scarso, è oggetto di proprietà e ha un prezzo; le idee in esso contenute no, e devono poter essere copiate senza limitazioni. I beni non-scarsi non sono mezzi, ma guide, per l’azione umana. «La conoscenza non è una cosa concreta che un individuo può controllare; è un universale, che esiste nella mente e nella proprietà di altre persone, e chi ha generato quella conoscenza non ha una legittima sovranità su di esse. Non puoi essere proprietario della conoscenza senza essere proprietario delle persone».
Invece, continuano questi autori, è proprio la creazione di un diritto di proprietà sulle idee a creare artificialmente una scarsità dove prima non esisteva. Diritti d’autore e brevetti danno vita a monopoli non giustificati.
Riconoscere il diritto di proprietà intellettuale significa attribuire artificialmente al creatore un monopolio su alcuni beni specifici; o, da un altro punto di vista, significa riconoscere al creatore diritti parziali di controllo sulla proprietà di ogni altro individuo (dunque renderlo comproprietario), perché egli può proibire loro di svolgere certe azioni con la loro proprietà: ad esempio, l’autore X può impedire a Y di scrivere una certa sequenza di parole sulle sue (di Y) pagine con il suo inchiostro. L’attribuzione di diritti di proprietà intellettuale dunque riduce i diritti di proprietà sulle risorse tangibili, cioè i diritti giusti.
I libertari che sostengono questo punto di vista ritengono che l’equivoco nasca dal concetto di “creazione”. Il criterio per l’acquisizione della proprietà non è la “creazione”, cioè il lavoro in astratto, bensì l’occupazione di alcune cose tangibili, trasformando le quali si produce magari qualcosa di nuovo. Utilizzando l’esempio proposto da Kinsella, se io forgio una spada, ho prima prelevato le materie prime necessarie sotto terra; dunque sono proprietario di quelle materie prime. Successivamente costruisco la spada; la spada è mia perché erano miei i fattori produttivi, non c’è bisogno di ricorrere al fatto della “creazione” per giustificare la proprietà della spada. La conferma di ciò è che se io costruisco la spada con i tuoi metalli, dunque ne sono il “creatore”, non sono il proprietario della spada. La creazione non è una condizione né necessaria né sufficiente per la proprietà; il ruolo cruciale è svolto dalla “prima occupazione”. Il lavoro indica che colui che utilizza la risorsa la possedeva già, ma non è la scaturigine della proprietà.
Vi è poi una seconda obiezione rivolta ai sostenitori della proprietà intellettuale. Le leggi vigenti proteggono solo certi tipi di creazioni; ma la distinzione tra quelle meritevoli di protezione e quelle che non lo sono è necessariamente arbitraria. Ad esempio, le verità filosofiche o matematiche non vengono protette dalle leggi attuali, in base al tacito criterio di ragionevolezza secondo cui, se ogni nuova frase o verità filosofica fossero considerate proprietà del suo creatore, gli scambi ed ogni relazione sociale verrebbero paralizzati. Per questa ragione i brevetti possono essere riconosciuti solo per le “applicazioni pratiche” delle idee ma non per le idee più astratte o teoretiche. La Rand concorda con questo diverso trattamento, distinguendo tra scoperta e invenzione, essendo la prima non brevettabile, la seconda sì. A suo avviso, infatti, una scoperta rappresenterebbe solo lo svelamento di una legge di natura già esistente, non creata dallo scopritore. Ma, obiettano i critici, la distinzione fra scoperta e invenzione non è sempre chiara. Infatti, anche nel caso delle invenzioni, l’inventore non crea materia nuova bensì la manipola e/o la riassembla in accordo con le leggi fisiche. Dunque, perché un ingegnere dovrebbe essere remunerato e un fisico no?
Naturalmente si potrebbe risolvere il problema non introducendo alcuna distinzione e considerando tutto proprietà intellettuale, ma si arriverebbe, come si è già visto, alla paralisi degli scambi, o alle assurdità alla Galambos, che metteva un nichelino in una scatola ogni volta che
pronunciava la parola “libertà” per pagare la royalty ai discendenti di Thomas Paine, ritenuto l’“inventore” del termine.
Una terza obiezione ai favorevoli su basi giusnaturaliste riguarda la temporaneità e l’arbitrarietà dei termini temporali stabiliti. Se un diritto di proprietà esiste, esiste per sempre, non temporaneamente. In secondo luogo, perché 20 anni per i brevetti e 70 dopo il decesso del creatore per i diritti d’autore, e non 19 o 71? Affermare che 19 o 71 sarebbero troppo poco o troppo non ha più valore che affermare che il prezzo di un litro di latte è troppo alto o troppo basso. Per quanto riguarda la durata, estenderla all’infinito comporterebbe, con il passare dei decenni e dei secoli, restrizioni sempre più insopportabili sugli atti che le persone possono compiere; ad esempio, «nessuno potrebbe costruire – o anche usare - una lampadina senza prima ottenere il permesso dagli eredi di Edison».
Rothbard era disposto a tollerare una limitatissima forma di proprietà intellettuale se frutto di un contratto, in relazione al suo argomento del “fascio di diritti” e della relativa “riserva” di essi. Su una singola risorsa tangibile possono essere distinti più diritti. Come il proprietario di un terreno può garantire l’estrazione di petrolio a una compagnia ma tenere per sé i diritti sulla superficie, così l’inventore di una nuova trappola per topi può vendere il diritto alla proprietà per gli acquirenti ma non il diritto di riprodurla (“riserva di diritti”), introducendo questa condizione nel contratto. Anche le terze parti che a loro volta acquistano o ricevono in regalo il bene, pure se non hanno sottoscritto un contratto con l’inventore, sono vincolate da tale limite perché «nessuno può vantare sopra un oggetto un titolo di proprietà più ampio di quello che gli è stato effettivamente trasferito».
Le obiezioni alla soluzione di Rothbard si sono concentrate sulla questione dei rapporti con i terzi. Supponiamo che Jones stipuli un contratto con Smith, in cui si stabilisce che Jones rivela un segreto a Smith purché questi non lo divulghi. Un simile contratto è legittimo, e Jones può perseguire Smith in caso di violazione. Tuttavia Jones non può perseguire tutti coloro che nel mondo sono ora a conoscenza del segreto, qualora lo rivelino ad altri; non ha stipulato contratti con loro, non ha diritti di proprietà su di loro, sulle idee che stanno nelle loro teste o sulle loro proprietà. Lo stesso ragionamento si può applicare al copyright: il venditore di un libro può accordarsi con gli acquirenti affinché essi non lo riproducano, ma non può impedire tale azione ad altri che eventualmente decidano di compierla.
Tuttavia per la correttezza di tale conclusione va presa in considerazione la modalità di conoscenza dell’oggetto in questione. In teoria in un libro il vincolo è inseribile: si può stampare su di esso un avviso di diritto d’autore introdotto per contratto (i critici qui obiettano che si affermerebbe una concezione del contratto insostenibile, in quanto il contratto dovrebbe vincolare solo le parti che lo stipulano). Dunque un terzo che, ad esempio, abbia trovato una copia del libro su una panchina, è a conoscenza della restrizione esistente. I critici però si soffermano su altre modalità di conoscenza dell’oggetto in questione. Se, ad esempio, un terzo vede semplicemente come è fatta la trappola per topi in mano all’acquirente, allora la può riprodurre senza essere perseguito. Per Rothbard ancora no, perché il titolo del terzo sulla trappola – la proprietà delle idee nella sua testa – non può essere maggiore del titolo dell’acquirente. Per i critici sì, perché il terzo non vede, perché non può accedere a, le idee nella testa dell’acquirente, ma solo l’oggetto in mano all’acquirente, e le idee si formano successivamente nella sua testa. In secondo luogo, e si torna così all’idea iniziale di base, viene ribadita la tesi secondo cui non si possiedono le idee, così come il lavoro, ma solo gli oggetti tangibili scarsi tramite appropriazione originaria.
Va precisato comunque che Rothbard era recisamente contrario ai brevetti. Egli riteneva che in un mercato libero le tradizionali norme penali fossero sufficienti a garantire il diritto di proprietà: una persona a cui vengono prelevati, da casa sua o dal suo ufficio (cioè rubati), un suo progetto o un suo nuovo bene, prima che vengano realizzati o messi in vendita, è già protetta dalla norma che vieta il furto. Non vi è altra protezione legittima. Lo stesso argomento è applicabile ai segreti commerciali.
All’approccio utilitarista (non disincentivare le creazioni intellettuali ai fini di una maggiore ricchezza complessiva) sono stati contrapposti i seguenti argomenti. Innanzi tutto l’impossibilità dei confronti interpersonali di utilità. Secondariamente il fatto che l’aumento della ricchezza
complessiva non giustifica la violazione dei diritti di proprietà di alcune persone; in questo caso il diritto di disporre dei propri beni fisici (ad esempio carta e inchiostro) come meglio si crede. In terzo luogo non è affatto dimostrato che la difesa della proprietà intellettuale aumenti la ricchezza e/o il benessere collettivi. Per gran parte della storia umana il copyright non è esistito, eppure ciò non ha impedito una vastissima realizzazione di letteratura, musica e arti di altissimo livello. Shakespeare non ha avuto bisogno del copyright per scrivere i suoi capolavori; di più: se fosse esistito il copyright, egli non avrebbe potuto utilizzare storie e personaggi inventati da altri autori e che egli rielaborò in maniera originale.
Inoltre, in assenza di copyright, l’editore che pubblica per primo continua ad avere un vantaggio consistente, di tipo temporale. Gli altri editori pubblicherebbero il medesimo libro solo se questo si rivelasse un successo, ma se è così vuol dire che il primo editore ha già incassato somme consistenti. Le statistiche dicono che l’80% dei profitti di un libro si realizza nei primi tre mesi.
Per quanto riguarda i brevetti, essi impediscono che altri possano migliorare l’invenzione originaria, con notevole danno per il benessere collettivo. I fratelli Wright non avrebbero mai potuto realizzare il loro primo aeroplano se non avessero potuto utilizzare e migliorare le idee di predecessori quali Cayley e Lilienthal. Gli studi econometrici poi non forniscono conclusioni nette a favore della tesi del maggior benessere collettivo derivante dall’esistenza dei brevetti. Probabilmente si determinerebbero più innovazioni se tali leggi non esistessero; forse le imprese impiegherebbero più risorse in ricerca e sviluppo se non dovessero spenderle nell’acquisto dei brevetti; o avrebbero maggiori incentivi a innovare se non potessero contare su un monopolio di venti anni sulle loro invenzioni. In ogni caso non esiste uno standard unico e oggettivo in base al quale giudicare se le spese di ricerca sono “troppo poche”, “troppe” o “giuste”.
Si è detto all’inizio che per i libertari i segreti commerciali e l’esclusività dei marchi sono complessivamente legittimi. L’appropriazione indebita di un segreto commerciale può essere bloccata tramite un’ingiunzione o successivamente sanzionata con il risarcimento dei danni. Circa l’utilizzazione di un marchio altrui, invece, per Palmer rappresenta una violazione dei diritti del detentore del marchio, mentre per Kinsella una violazione dei diritti del consumatore, che viene frodato dal contraffattore.
P. Vernaglione, Il libertarismo applicato ai singoli temi - Proprietà intellettuale, in Rothbardiana,: http://rothbard.altervista.org/temi-lib/proprieta-intellettuale.doc
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