Joey Dunlop

By Christof Berger [GFDL or CC-BY-SA-3.0 ], from Wikimedia Commons
   

Aveva 48 anni e dal 1969 correva sui pericolosissimi circuiti stradali del nord Europa. Con lui se ne va l'ultimo esponente di un motociclismo eroico che ormai non esiste più.

A uno degli ultimi Saloni di Birmingham, davanti allo stand della Honda, c'era una ressa incredibile: centinaia di persone
erano in fila per incontrare i piloti ufficiali della Casa dell'Ala dorata: Aaron Slight, Colin Edwards e Joey Dunlop... però Joey non c'era. Sparito, volatilizzato, non si riusciva a trovare da nessuna parte. All'improvviso uno degli addetti stampa lo vide: era in fila anche lui in mezzo alla gente per vedere cosa ci fosse di così interessante nello stand: "Mi sono unito alla coda per vedere che cosa stava aspettando tutta questa gente" disse candidamente agli esterrefatti uomini dell'Honda.

In questo episodio c'è tutto Joey Dunlop, un personaggio chiuso e modesto, schivo al punto da non curarsi della popolarità di cui godeva in Inghilterra e fra gli sportivi di lingua inglese. Lui, nativo di Ballymoney in Irlanda del Nord a una sessantina di km da Belfast, figlio di una terra, l'Ulster, segnata da divisioni e odi religiosi profondi, amava solo lavorare sulle sue moto e correre, senza curarsi dell'immagine e delle buone maniere imposte dallo show-business.

Amava, perchè Joey Dunlop non c'è più: il re del Tourist Trophy è volato via per sempre in una piovosa domenica di
inizio luglio a Tallin in Estonia. Là dove non erano arrivati i perfidi folletti dell'Isola di Man è riuscita invece una S veloce e scivolosa nella quale la sua Honda 125 si è intraversata proiettandolo contro due alberi. "La morte è stata istantanea" recita lo scarno comunicato delle agenzie di stampa
rimbalzato nel Regno Unito con un effetto dirompente. A Ballymoney, 8.500 anime e una manciata di pub - uno dei quali di proprietà dello stesso Joey - il tempo si è fermato.

La gente è scesa per strada guardandosi negli occhi, cercando negli sguardi una piccola luce di speranza perchè Joey Dunlop non poteva essere morto. Lui che aveva sfidato la morte al Tourist Trophy per quasi 25 anni. Lui che correva ovunque, in qualsiasi circuito infame fasciato da muretti, pali della luce e terrapieni. Lui che aveva visto nascere, crescere e morire un'intera generazione di piloti specialisti delle
corse su strada non poteva essere stato tradito da una piccola Honda 125. Perché Joey Dunlop aveva domato le più potenti Superbike, saltato al Ballaugh Bridge con la Yamaha TZ 750, vinto l'ultimo Senior TT a 48 anni, piccole settimane prima, con una Honda SP1 facendosi beffe di avversari
che hanno l'età dei suoi figli. Perchè Joey Dunlop, campione dei circuiti stradali che rappresentano l'ultima frontiera del motociclismo da corsa, dopo tutti questi anni di gare, semplicemente, non doveva morire. Invece quel vigliacco comunicato d'agenzia era terribilmente vero e per tutti gli sportivi lo shock è stato tremendo.

Jeremy Mc Williams, pilota ufficiale Aprilia che a Donington stava commentando in diretta una prova della Superbike inglese è scoppiato in lacrime e non è riuscito a continuare, mentre a Belfast la notizia è stata diffusa da radio e tv.

Nello stadio cittadino in cui si stava disputando la finale
irlandese di Football Gaelico, 33.000 persone hanno seguito l'incontro in un silenzio surreale. La fama di Dunlop andava al di là dei confini motociclistici e riusciva a superare ogni barriera politica e religiosa.

Joey, nato in una famiglia unionista, non si era mai interessato alla politica: viveva per le corse e per la famiglia. Era sposato da 28 anni con Linda ed era padre di 5 figli. Aveva iniziato con le corse nel 1969 con una Triumph
Tiger Cub comprata per 20 sterline. All'epoca viveva di espedienti: carpentiere, lava auto, autista di una lavanderia, ma soltanto nelle corse trovava la sua vera dimensione. Assieme a lui c'erano a Ballymoney altri due piloti, suo cognato Merv Robinson e tale Frank Kennedy. Insieme formavano l' "Armoy Armada", uno dei più squattrinati e agguerriti team che avesse mai calcato la scena dei circuiti stradali inglesi e irlandesi. La passione era tanta, i soldi pochi. Per questo motivo l' "Armoy Armada" dava il meglio di sé nei pub la sera prima delle gare.

L'imperativo era esagerare, senza preoccuparsi della gara del giorno successivo e in questa specialità Joey era un vero maestro. Una volta nel corso di un Senior TT girò solamente a
187 km/h di media, lamentando una visione confusa della pista e forti mal di testa perché la notte prima aveva bevuto fino alle 4. Un'altra volta, alle 3 del mattino, per concludere degnamente una serata allegra, offrì un bicchiere di poteen (un potentissimo liquore irlandese di contrabbando) al suo
meccanico Antony Bass che, nel timore di star male, ne vuotò il contenuto in un vaso facendone morire le piante.

Quando il "soldato Joey" debuttò all'Isola di Man, invece, non si preoccupò minimamente di fare una ricognizione del circuito, con il risultato che nel primo turno di prove ufficiali si
trovò in sella alla sua Yamaha TZ 350 senza sapere dove andare. Arrivato al Ballacrane si accodò ad un pilota finchè lo perse di vista. Si fermò, ne aspettò un altro e riprese l'inseguimento. Ovviamente il tempo sul giro non fu proprio dei migliori... Da quel giorno però Joey imparò metro per metro
tutti i segreti del Mountain Circuit fino a diventarne il recordman assoluto di vittorie: 26, più di Agostini ed Hailwood messi assieme.

Fra una bevuta e l'altra Joey era imbattibile nel preparare le moto e nel gioco delle freccette, unica sua passione al di fuori delle due ruote. Anche se ufficialmente era un pilota della Honda UK, era lui ad intervenire personalmente sui suoi mezzi ed era sempre lui che guidava il suo furgone nelle lunghe trasferte in giro per l'Europa.

C'è un bellissimo film degli anni 70 intitolato "Continental Circus" in cui il regista francese Jerome Laperrousaz racconta la stagione iridata 1969 di Jack Findlay, all'epoca il privato più veloce del mondo. Si vedono le trasferte sempre uguali, la stanchezza, gli sforzi di Findlay pilota, meccanico e unico uomo di fatica del suo team.

Ecco, il modo di vivere le corse di Joey Dunlop era lo stesso di Findlay, solo che il pilota irlandese lo viveva oggi, all'ombra del motociclismo che conta e dei faraonici motor-home della Honda UK che facevano capolino anche nel paddock di Douglas sull'isola di Man. Lui preparava le moto nel box di casa, partiva nascondendo il denaro sotto il sedile del guidatore, arrivava con il suo furgone, indossava la tuta e vinceva.

Grande anche al di fuori delle piste, grazie alla sua attività di volontariato nelle zone calde dell'Europa devastate dalla guerra.

Durante il sanguinoso conflitto nell'ex Jugoslavia, Dunlop aveva organizzato una serie di spedizioni per portare viveri e medicinali umanitari, ma alla sua maniera:
caricando un pulmann e facendo rotta verso la Bosnia, incurante dei pericoli che un viaggio del genere poteva comportare.

Una volta, attraversando l'Albania, venne fermato da alcuni poliziotti corrotti. Mancavano dei visti, dicevano, e non poteva proseguire a meno che non avesse
fatto un'offerta ai solerti funzionari. Joey non si scompose - era senza denaro - e si fece arrestare tranquillamente. Il capo della polizia locale però era un appassionato di moto, lo riconobbe e gli diede un permesso speciale in cambio di alcuni adesivi e vecchie riviste.

Per questo suo impegno umanitario ricevette diversi riconoscimenti dalla Corona britannica. Solo dopo la sua ultima trasferta senza ritorno in Estonia si è veramente capito
quanto lui fosse grande.

La sua morte d'altri tempi - senza nessuna foto o nessun video a testimoniarla - in un'epoca in cui il grande occhio
televisivo porta in ogni casa l'evento, anche se questo avviene dall'altra parte del mondo, ha avuto come contraltare il minuto di silenzio a Donington prima del GP d'Inghilterra del Motomondiale e l'estremo saluto delle 50.000 persone giunte a Ballymoney il giorno del suo funerale.

Questa doveva forse essere la sua ultima stagione di corse, anche se ormai lo annunciava da almeno 10 anni e nessuno ci credeva veramente.

Dunlop avrebbe corso fino a quando un incidente gli avrebbe sbarrato per sempre la strada, perchè le corse erano la sua vita e niente o nessuna cosa al mondo avrebbero potuto sostituirle.

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