Edgar Allan Poe - Il crollo della casa Usher

Son coeur est un luth suspendu;
Sitôt qu'on le touche, il résonne.
De Béranger


Lungo un'intera fastidiosa giornata d'autunno, buia e senza suono, come quando le nubi pesano basse in cielo, io avevo cavalcato, solitario, attraverso una regione campestre singolarmente lugubre fino a che mi ritrovai, al calar dell'ombra serale, in vista della malinconica casa degli Usher. Non rammento bene il perché e il come, ma non appena l'ebbi guardata, l'animo mio fu subito posseduto da un sentimento insoffribile di tristezza. Insoffribile, dico, da che non le si univa alcun sentimento poetico, il quale rende quasi piacevoli, allorché le accompagna, anche le immagini naturali più sinistre per la desolazione e l'orrore. Rimiravo la scena che m'era dinanzi: e lo spettacolo di quella casa e di quel paesaggio che le era attorno, le mura fredde, le finestre riguardanti come orbite vuote, gli sparsi càrici selvaggi, i tronchi candidi e fatiscenti di alcuni alberi, mi comunicarono un tale estremo avvilimento che solo potrei paragonare alle sensazioni terrene del fumatore d'oppio allorché ritorna amaramente alla realtà quotidiana e assapora l'orribile momento del velo che dilegua. Era come un gelo al cuore, un'oppressione, un malessere. E un insidioso e invincibile orrore che abitava il pensiero e lo rendeva sterile e impedito a secondare qualsiasi sforzo dell'immaginazione. Ed io ristetti per chiedermi allora che cosa mai rendesse tanto sconsolata la vista della casa Usher. E tuttavia non sapevo rispondermi, né pervenivo a rendermi ragione delle nebbiose fantasie che m'affollavano la mente. Per modo che fui costretto a fermarmi alla poco soddisfacente conclusione che vi sono combinazioni d'oggetti naturali e semplicissimi che hanno il potere d'avvilirci a tal segno, sebbene l'analisi d'un simile potere si fondi su un sistema di ragionamenti cui la nostra penetrazione si rifiuta. E ripensavo, tra me, ancora, che forse qualche mutamento della scena, ovvero dei suoi particolari, sarebbe stato bastevole a correggere o fors'anche a cancellare del tutto il potente richiamo di quella penosa impressione. Seguendo un tale ordine di pensieri, condussi il mio cavallo sulla riva scoscesa d'un lugubre stagno le cui acque morte specchiavano, nel loro negro lucore, l'edificio e il paesaggio attorno. Mi sporsi a guardare ma ne ritenni un ancor più profondo sentimento di desolazione, da che vidi, capovolte, le immagini cineree dei càrici, dei tronchi, rinsecchiti e spogli, delle occhiaie vuote di quelle mute finestre.
Era in quella malinconica dimora che mi disponevo, tuttavia, a trascorrere alcun tempo. Il suo padrone, Roderick Usher, era tra i miei più cari compagni dell'infanzia, quantunque molti anni fossero passati dal nostro ultimo incontro. Una sua lettera, nondimeno, m'aveva raggiunto in una lontana parte del paese e l'intonazione disperata di quella non comportava risposta diversa dalla mia presenza effettiva. Con una calligrafia che tradiva una nervosa agitazione, Usher m'informava d'una sua acuta malattia fisica, d'uno squilibrio della mente che lo devastava e d'un desiderio feroce di rivedermi, mentre mi chiamava il suo migliore, il suo unico amico. Egli contava trovare un qualche sollievo dal suo male nella felicità che gli avrebbe arrecata, appunto, la mia presenza. Fu il tono di quelle e d'altre molte parole ancora, e l'impressione che provenissero dal profondo del cuore che loro s'univa, a troncare ogni mia esitazione. Per modo che io ubbidii senz'altro, ancorché preda di una stupita sorpresa, a quel bizzarro richiamo.
Quantunque, da ragazzi, fossimo stati uniti da una certa intimità, io conoscevo assai poco del mio amico dal momento che egli aveva sempre tenuta l'abitudine a un gremito riserbo. Non m'era ignoto, tuttavia, che la sua antica famiglia s'era distinta, da tempo immemorabile, per una peculiare sensibilità del temperamento, messo a prova, attraverso i secoli, in numerose opere di superiore arte e manifestato, di recente, in ripetute caritatevoli azioni, munificenti quanto discrete, come pure in una appassionata devozione agli intrichi, più, forse, che alle ortodosse e facilmente riconoscibili bellezze della scienza musicale. Non ignoravo, ancora, il fatto piuttosto rimarchevole che la schiatta gloriosa degli Usher non aveva mai prodotti, al suo albero genealogico, rami durevoli e che l'intera famiglia, in altre parole, salvo rare ed effimere eccezioni, s'era svolta totalmente nella sua discendenza diretta. Era questa deficienza, pensavo tra me, considerando l'identità del carattere dell'edificio e quello ben noto della loro schiatta e fantasticando sull'influenza che l'uno, in così lungo trascorrere di anni, aveva potuto esercitare sull'altro, era questa deficienza, forse, di rami collaterali e la conseguente rigida trasmissione, di padre in figlio, del patrimonio col nome, che aveva, infine, identificati i due, fino a trasformare l'originario titolo della proprietà nello strano ed equivoco nome di «Casa Usher», un nome che sembrava includere, nella mente dei contadini dei dintorni, entrambe: la famiglia e la magione sua.
Io ho già detto che l'unico risultato del mio esperimento, abbastanza infantile del resto - di guardar giù nello stagno - era stato di accrescere la prima singolare impressione. Né può sussistere alcun dubbio che la coscienza del rapido intensificarsi di quella mia superstizione - perché chiamarla altrimenti? - aveva servito principalmente, esso stesso, ad accelerarla e approfondirla. Cotesta, secondo io sono avvertito da tempo, è la legge paradossale di tutti i sentimenti che hanno il terrore alla propria base. E può essere soltanto per questa ragione che, quand'io levai soltanto gli occhi all'edificio, dal riflesso che avevo contemplato fin lì, nello stagno, mi crebbe nella fantasia un'immagine strana, un'immagine talmente ridicola perfino, che la registro soltanto per dar l'idea della viva potenza delle sensazioni che m'opprimevano. Il lavorio eccitato della mia immaginazione mi rappresentò, dunque, che attorno all'edificio e alla proprietà fosse sospesa un'atmosfera particolare, propria appunto all'edificio e alle sue vicinanze, un'atmosfera che non aveva nessuna affinità coll'aria celeste, ma che esalava dagli alberi spogli e rinsecchiti, dalle mura grigiastre e umide, dallo stagno silenzioso, un vapore, insomma, misterioso e pestilenziale, fosco, fermo, plumbeo e appena visibile.
Respingendo dall'animo mio ciò che doveva essere soltanto un sogno, m'industriai di meglio esaminare l'aspetto della costruzione. Il suo carattere principale sembrava consistere in una estrema decrepitezza. Lo scolorimento prodotto dagli anni era rimarchevole. Fungosità minute rivestivano la faccia esteriore e la tappezzavano, a partir dal tetto, come una stoffa finemente trapunta. Tutto ciò non aveva provocato alcun deterioramento straordinario. Nessuna parte della costruzione era diroccata e sembrava che vi fosse una strana contraddizione tra la consistenza generale dell'insieme e il deterioramento delle singole i pietre, la quale mi rammentava, al tutto, l'integrità speciosa d'un qualche vecchio tavolo lasciato a imputridire in una cantina dimenticata, lungi dal soffio dell'aria esterna. A parte l'indizio di questa corrosione, l'edificio non dava alcuna sensazione di fragilità: soltanto l'occhio, forse, d'un minuzioso osservatore avrebbe scoperto una fessura, appena visibile, la quale, partendo dal tetto, correva a zig-zag il muro della facciata e andava a perdersi nelle lugubri acque dello stagno.



Avevo cavalcato, così, osservando tali fenomeni, lungo un breve rialzo del terreno che menava all'entrata. Un guardiano che aspettava mi prese in quel punto il cavallo ed io passai sotto l'arco gotico dell'atrio. Un domestico dal passo furtivo mi condusse, senza dir parola, attraverso un labirinto di passaggi oscuri e intricati verso lo studio del suo padrone. Gran parte di ciò ch'io incontravo avanzando, serviva, non so bene in che modo, a confermare le vaghe impressioni di prima, quantunque gli oggetti framezzo a cui dirigevo il passo, - i cupi arazzi che pendevano dalle pareti, i pavimenti d'ebano, i soffitti intarsiati, i fantasmagorici trofei le cui armature cigolavano al mio passaggio - fossero quelli, ovvero del tutto simili a quelli, cui avevo l'abitudine fin dall'infanzia. Quantunque io non esitassi a riconoscere tutto ciò che vedevo per familiare, esso, per contro, destava in me delle immagini che non lo erano affatto ed erano anzi, per me, causa continua di stupore. Incontrai lungo una scala il medico di casa. Ebbi l'impressione che la sua fisionomia esprimesse una maligna furberia, bassa e trepida insieme, e al momento di passarmi dinanzi, prima di scomparire, che esitasse incerto. Il domestico, in quell'istante, aprì una porta e m'introdusse alla presenza del suo padrone.
La stanza in cui mi trovai era assai ampia, e il soffitto molto distante. Le lunghe sottili finestre gotiche erano così rialzate dal nero pavimento di quercia ch'era assolutamente impossibile accedervi. Deboli bagliori d'una luce vermiglia si facevano strada attraverso i graticci delle impannate e lasciavano a malapena distinguere gli oggetti all'intorno. L'occhio frugava, invano, per quella tenebra, a ricercare gli angoli remoti della stanza o i recessi della vòlta intagliata. Oscuri arazzi pendevano anche qui dalle pareti. Il mobilio era profuso ma freddo, antico, ingombrante e logoro. Libri e strumenti musicali erano sparsi numerosi da per tutto e pur non riuscivano a ravvivare in nulla l'ambiente. M'accorsi allora ch'io respiravo un'aria addolorata. Un'aria di profonda, cupa, irrimediabile tristezza che sovrastava e invadeva tutto.
Al mio entrare, Usher si levò di su un divano sul quale era sdraiato e mi accolse con una vivace effusione che lì per lì mi seppe di cordialità esagerata, dello sforzo penoso dell'uomo di mondo ennuyé. E bastò, nondimeno, ch'io lo guardassi in volto per convincermi ch'era sincero. Sedemmo, e per un certo tratto, poich'egli taceva, lo contemplai con un misto di paura e di commiserazione. In così poco tempo, non c'è dubbio, a nessun uomo è mai accaduto di operare un tal mutamento nell'aspetto come quello, orribile, ch'era occorso a Roderick Usher! Ed io potevo persuadermi a stento che l'immagine spettrale che stava dinanzi a me e il compagno della mia infanzia eran tutt'uno. Il carattere della sua faccia era stato peraltro, fin d'allora, singolare. Il pallore cadaverico, l'occhio largo, liquido e luminoso al di là d'ogni paragone, le labbra sottili e smorte, eppur meravigliosamente incurvate, il naso di stampo ebraico, ma assai delicato e dalle narici ampie che s'accordano raramente con quella forma, il mento modellato con eleganza, ma che, per essere un tantino sfuggente, tradiva una mancanza d'energia morale, i capelli d'una morbidezza e d'una sottigliezza da sembrare fili di ragno; tutti questi tratti, insomma, ai quali bisogna aggiungere uno sviluppo frontale eccessivo, gli conferivano una fisionomia che non era più possibile dimenticare. E tuttavia il cambiamento intervenuto, ora, in quelle caratteristiche già di per se stesse esagerate, era così intenso ch'io dubitavo persino di parlare proprio a lui. Il pallore, ora, del suo volto, simile a quello d'una parvenza di fantasma e il sorprendente splendore dello sguardo, mi colpirono e mi intimorirono sopra tutto il resto. Egli aveva lasciato, inoltre, che i suoi capelli, morbidi e setosi, crescessero a piacer loro, in una sorta di spuma filacciosa e selvaggia che gli aleggiava attorno al capo, così che io non ero capace di riferire quella immagine d'arabesco, per quanti sforzi facessi, a una qualsiasi idea di semplice umanità.
Così, nel comportamento del mio amico, ravvisai subito alcunché d'incoerente ovvero di inconsistente, e ben presto mi accorsi d'onde proveniva e cioè da un tentativo continuato, ma debole ormai e senza speranza, di dominare e ammansire un'abituale tremore, una angosciata agitazione nervosa. A questo mi aveva preparato, del resto, non solo la sua lettera: alcun ricordo, bensì, della sua infanzia, oltre a tutto ciò che si poteva dedurre dalla sua particolare conformazione fisica e dal suo temperamento. Vivacità e fiacchezza s'erano sempre alternate nei modi di Usher. La sua voce, che si perdeva, spesso, come in un tremito d'incertezza - allorché sembrava che l'avessero abbandonato persino gli spiriti vitali - saliva e si consolidava in tono energico e stringato e la sua pronuncia diveniva dura e tagliente, compatta e insieme sorda, e l'articolazione dei suoni riusciva perfettamente modulata, simile a quella che si osserva nei più disperati bevitori, negli oppiomani più incorreggibili, all'epoca dei loro più intensi eccitamenti.
Egli m'intrattenne, allora, attorno alle ragioni della mia visita e al desiderio prepotente che l'aveva preso di rivedermi e al conforto che confidava di trovare in me. E discorse anche, a lungo, di ciò che costituiva, secondo lui, la natura del suo male. Egli riteneva che fosse un'atavica irrimediabile malattia. Poi soggiunse, immediatamente, che era una semplice affezione nervosa e che sarebbe ben presto guarita. Si manifestava in una quantità di sensazioni anormali. Mentre egli me le elencava, io ne rimanevo interessato e insieme turbato: ma forse solo per il tono della sua voce, e il modo di narrarle. Egli soffriva d'una iperacutezza dei sensi addirittura morbosa: riusciva a tollerare soltanto taluni cibi quasi privi di sapore, a vestirsi soltanto di certe determinate stoffe; il profumo dei fiori lo soffocava, la più debole luce gli torturava gli occhi e qualsiasi suono - salvo, forse, certuni di strumenti a corda - lo agghiacciava di spavento.
Compresi che era lo schiavo impotente d'una strana forma di terrore.
«Io morirò», disse, «io devo morire di questa pazzia maledetta. Così, così e non altrimenti io sarò perduto. Se ho paura di ciò che è per venire, è solo per i suoi risultati. Mi dà i brividi pensare che un accidente qualsiasi, anche il più banale, può avere incalcolabili conseguenze su questa anima mia agitata e tremebonda. Io non provo timore del pericolo ma solo per la sua conseguenza naturale e sicura: il terrore. In questo mio triste stato, impotente come sono, io sento d'andare incontro, presto o tardi, a quell'istante in cui la vita e la ragione m'abbandoneranno a un tempo dibattendosi entrambe contro il lugubre fantasma PAURA».



Attraverso confidenze balbettate ed ambigue, seppi, a poco a poco, anche d'un altro strano aspetto della sua condizione mentale. Egli si sentiva legato a superstiziose impressioni circa la sua dimora, dalla quale non aveva più osato uscire da anni ormai, circa un influsso della cui potenza egli mi disse con parole troppo oscure perché io le possa riferire, ma del quale compresi che era come emanato da talune caratteristiche della forma e della materia stessa della casa avita, un influsso che, tormentandolo a poco a poco, con lunghe, snervanti agonie, pioveva nel suo spirito, dal fisico delle grige mura, dalle torri e dal livido stagno in cui si riflettevano.
Egli ammetteva, nondimeno, esitando, che una gran parte della sua stravagante melanconia gli proveniva da una causa assai più semplice e naturale, dalla malattia cioè, lenta e feroce, dall'evidente avvicinarsi della morte d'una sua sorella adorata, unica compagna per molti anni, unica parente rimasta in terra. «La sua morte», egli proseguì, con tale accento amaro che non m'avverrà mai di scordarlo, «mi lascerà ultimo e solitario della razza degli Usher: io solo, fragile e disperato». Mentr'egli parlava, Lady Madeline - questo era il nome della sorella - passò lentamente nel fondo della stanza e scomparve poco appresso come se non m'avesse neppur visto. Fui preso insieme da gran meraviglia e timore: né riuscii a rendermi conto esatto di queste sensazioni. Un senso di stupore s'impadroniva di me, intanto, mentre io seguivo i passi di lei che s'allontanava ed allorché, alle sue spalle, una porta fu chiusa, i miei occhi ricercarono, con istintiva ansia, quelli del fratello; ma egli aveva seppellito il volto tra le mani e solo potei accorgermi d'una anormale bianchezza che gli s'era appresa alle dita affilate e bagnate di pianto.
La malattia di Lady Madeline si burlava, da tempo ormai, della scienza medica. Le sue caratteristiche più strane consistevano in una ostinata apatia, in un progressivo deperimento e sfinimento dello spirito, interrotti da rapide e frequenti crisi d'una sorta di catalessi parziale. Ella aveva portato con fermezza il suo peso fino a quel momento e non s'era rassegnata a porsi in letto. E tuttavia, alla fine della mia prima serata nella casa - come suo fratello mi disse, la notte, con immensa agitazione - le bisognò cedere alla potenza del male. Ed io seppi, così, che non sarebbe, probabilmente, mai più comparsa alla mia vista e che almeno, da viva, non l'avrei più riveduta.
Durante alcuni giorni, né Usher né io pronunciammo il suo nome. Non mi risparmiai, in questo frattempo, per tentare di confortare l'amico mio e così leggevamo, ovvero dipingevamo ed io ho ascoltate, più d'una volta, come perduto in sogno, le selvagge e sfrenate improvvisazioni della sua eloquente chitarra. E più la nostra crescente intimità mi permetteva di conoscere l'animo di lui, più mi rendevo conto di quanto amaramente inutili fossero gli sforzi per restituire la salute a un'anima dalla quale il buio, come una sua peculiare e positiva caratteristica, si riversava all'intorno, in una irradiazione luttuosa e incessante, sopra tutti gli oggetti del mondo fisico e morale.
Il ricordo delle lunghe ore ch'io ho passate, a faccia a faccia, col padrone della casa Usher, non m'abbandona più. Eppure invano tenterei di riferire esattamente la natura degli studi e delle occupazioni nelle quali egli mi trascinava. Una morbosa spiritualità illuminava gli oggetti come d'una luce sulfurea, mentre Usher improvvisava delle lunghe nenie che risoneranno eternamente alle mie orecchie. Rammento, in modo del tutto particolare, tra queste, una singolare perversione e amplificazione del selvaggio tema nell'ultimo valzer di Weber. Quanto, poi, alla pittura che nasceva dall'ardore e dal tormento della sua immaginazione e che io scorgevo, man mano, concretarsi in tocchi e pennellate successive, in forme bizzarre che più non riuscivo a comprendere e più mi mettevano i brividi, quanto alla sua pittura, quantunque io ne ritenga tuttavia l'immagine viva nella rètina, non sarei capace di ridurne che una parte, nel giro di compasso della parola scritta. Quel pittore afferrava e teneva avvinta l'attenzione con una estrema semplicità e addirittura nudità di mezzi. Se mai un mortale riuscì a dipingere un'idea, quel mortale fu Roderick Usher. È indubitato, comunque, che per me - in quelle particolari circostanze - dalle astrazioni che il mio triste amico si accaniva a dipingere si sprigionava una irresistibile impressione di terrore, tale che io non ho nemmeno provata nel contemplare le pur incandescenti ma troppo concrete fantasticherie di Fuseli.
Una soltanto, forse, tra queste rappresentazioni fantastiche di Usher, perché meno rigorosamente astratta, può venire, in certo modo, adombrata nelle parole. Era una piccola tela che figurava un interno di cantina, ovvero d'un sotterraneo rettangolare, lunghissimo, dalle pareti basse, bianco, liscio, senza interruzioni né veruno ornamento. Alcuni particolari servivano a far capire che esso era situato a una enorme profondità sotto la superficie della terra: non c'erano uscite, lungo quell'interminabile canale, né torce, né altre sorgenti di luce ma un fiume d'imcomprensibili raggi lo riempiva tutto d'uno splendore spaventevole e assurdo.
Ho già detto come il nervo auditivo dell'infelice mio compagno non tollerasse altra musica che quella di certi strumenti a corda. Io credo, così, che i limiti appunto cui questa affezione lo costringeva gli avevano imposto la chitarra che, a sua volta, provocava la bizzarria delle sue composizioni. Eppure ciò non spiegava la fervida felicità dei suoi impromptus. Così la musica, come le parole, delle sue selvagge fantasie - giacché egli usava spesso accompagnarsi alla chitarra con dei versi - dovevano essere, ed erano infatti, il risultato d'una intensa concentrazione delle forze dello spirito la quale, come ho detto sopra, si ottiene in alcuni particolarissimi istanti della acuta eccitazione artificiale. Nella mia memoria, ho potuto facilmente ricostruire le parole d'una di coteste rapsodie. Esse, al momento che furono udite da me la prima volta, mi impressionarono oltre misura poiché, nel loro profondo o, per così dire, mistico significato credetti sentire per la prima volta, una piena coscienza, da parte di Usher, che la sua ragione si stava oscurando. Quella composizione era intitolata Il palazzo stregato e i suoi versi, se non proprio alla lettera, sonavano press'a poco così:

I

Nella più verde delle nostre valli
Che da angeli benigni era abitata
Un maestoso castello ergea la fronte
Bella e splendente un dì. Di Re Pensiero
Nei domini s'ergea. Mai serafino.
Sopra il compagno dispiegò le piume
Che, a mezzo sol, di lui fosse più bello.

II

Fulvi, splendenti, gli stendardi d'oro
Sul tetto palpitavan fluttuando -
Ma tutto questo era nel tempo andato! -
Ogni aura gentile che alitava
Nella dolce stagione, sui bastioni
Impennacchiati e pallidi, lasciava
Un alato profumo in quella landa.

III

E chi passava nell'amena valle,
Per entro a due finestre illuminate,
Vedea trascorrer spiriti che a danza
Lieti moveano, al ritmo d'un liuto
Ben accordato, attorno a un trono, dove,
In pompa alla sua gloria bene accetta,
Sedea - Porfirogenito! - il monarca.

IV

Fiammeggiante di perle e di rubini
Era l'ingresso del castello, ed entro
Quello movea continuo, scintillante,
D'Echi uno stuolo che, del loro Sire,
Cantavano l'ingegno e la saggezza.

V

Ma creature sinistre, in negre vesti
Di dolore, il Dominio hanno ora invaso.
- Ah! ci attristiamo! Su di lui un domani
Più non arriderà con l'alba nuova -
E la gloria all'intorno che in passato
Fioriva, imporporata di confuse
Memorie, or'è una favola sepolta.

VI

Oggi il viandante per quella contrada
Traverso alle finestre, rischiarate
Da un baleno rossigno, vede innumeri
Fantasmi che si torcon, spasimando,
Al ritmo d'una musica discorde.
E come orrenda e rabida riviera
Fuor dell'entrata pallida, si versa
All'infinito, orripilante calca
Che non può più sorridere, ma ghigna.

Io rammento, con molta chiarezza, che la suggestione sprigionata da una simile leggenda ci condusse traverso un labirinto di pensieri tra i quali voglio riferire una certa opinione di Usher non tanto per la sua originalità (dal momento che, prima di lui, la condivisero altri uomini) quanto per l'ostinazione con cui egli vi si mantenne. Tale opinione rivendicava le qualità sensoriali dell'intera specie vegetale. Ma nella sua disordinata fantasia, quell'idea aveva assunto un carattere addirittura temerario ed egli era passato, così, ad applicarla anche, sotto certi aspetti al regno inorganico. Mi mancano le parole per esprimere la piena estensione ovvero l'assoluto abbandono della sua persuasione. Quella credenza, tuttavia, doveva essere connessa (come ho suggerito di sopra) alle grigie pietre della sua dimora ancestrale. Le condizioni per quella sensibilità, secondo egli immaginava, erano state tenute presenti nella disposizione d'ogni pietra, nell'ordine della loro sovrastruttura come pure nel rampicamento delle fungosità che le ricoprivano e degli alberi dispogliati che le attorniavano e, soprattutto, nella durevole e indisturbata immobilità d'una tale disposizione e nel suo raddoppiarsi a specchio, nelle acque stagnanti del padule. «La sua evidenza della sensibilità, cioè, era da vedersi», diceva Usher (e le sue parole, a questo punto, mi fecero trasalire), «in una graduale ma pur certa condensazione dell'atmosfera emanata dagli stessi oggetti su dall'acque e attorno alle pareti. La prova era evidente», egli aggiungeva, «in quella muta e pur terribilmente ostinata influenza che aveva come foggiati, attraverso i secoli, i destini della sua famiglia e che aveva fatto di lui ciò che io ora vedevo, ciò che egli, in effetti, era». Consimili opinioni non abbisognano d'alcun commento e così io non ne appresterò veruno.



I nostri libri - i medesimi che avevan formata, per lunghi anni, non piccola parte dell'esistenza spirituale del malato - erano, com'è facile prevedere, in stretta relazione col suo carattere di visionario. Meditammo, così, assieme, opere come Ververt e La chartreuse del Gresset; il Belfagor di Machiavelli; Le meraviglie del cielo e dell'inferno di Swedenborg; Il viaggio sotterraneo di Nicholas Klimm di Holberg; la Chiromanzia di Robert Flud, come pure quella di Jean D'Indaginé e di De la Chambre, Il viaggio nella prospettiva azzurra di Tieck e La città del sole di Campanella. Tra le letture favorite era una edizione del Directorium Inquisitorum del domenicano Eymeric de Gironne, come pure i passaggi, in Pomponio Mela, attorno agli antichi Satiri Africani e agli Egipani, sui quali Usher restava a sognare per ore ed ore. Suo principale diletto era, tuttavia, nel ripassarsi una rarità eccezionale, l'in-quarto gotico - manuale d'una chiesa abbandonata - Vigiliae mortuorum secundum chorum ecclesiae maguntinae.
Non potei far di meno che richiamare alla mente i riti crudeli descritti in quel libro e trarre qualche congettura attorno alla probabile influenza che essi avevano dovuto esercitare sull'ipocondriaco, allorché, una sera, dopo avermi bruscamente informato che Lady Madeline non era più, mi mise a parte della sua intenzione di conservare il corpo di lei per alquanti giorni - innanzi il seppellimento definitivo - in uno dei numerosi sotterranei scavati nelle mura maestre dell'edificio. La ragione addotta per un tanto singolare procedimento era, peraltro, così commovente ch'io non credetti nemmeno di discuterne. Il fratello era stato consigliato a quella misura - così fui informato - dopo aver considerato il carattere insolito della malattia della morta e la insistente curiosità scientifica dei medici che l'avevano curata, i quali, da quella sospinti, avrebbero potuto anche approfittare della collocazione remota e indifesa della tomba di famiglia. E non negherò che, richiamandomi alla mente l'aspetto sinistro della persona che avevo incontrata salendo le scale della Casa Usher la prima volta, mi guardai dall'oppormi o dallo sconsigliare ciò che mi sembrava una precauzione innocua e affatto naturale.
Alla richiesta di Usher, mi adoperai per aiutarlo personalmente a preparare quel temporaneo seppellimento. Deposto che avemmo e chiuso il corpo nella bara, lo portammo - noi soli - al luogo del suo riposo. Il sotterraneo dove lo collocammo - il quale era rimasto chiuso da tanto tempo che le nostre torce, mezzo soffocate in quell'opprimente atmosfera, rimandavano scarsa luce, aumentando le nostre difficoltà - era piccolo, umido e senza possibilità che vi arrivasse il lume del giorno. Esso era situato, infatti, assai in profondità, proprio al di sotto dell'ala dell'edificio dove si trovava il mio appartamento. Appariva già usato, in tempi remoti di feudalesimo, al fini peggiori d'una segreta e, in tempi più recenti, come deposito di polveri o d'altri potenti esplosivi, dal momento che su una parte del pavimento così come lungo tutto un arco che dovemmo attraversare per raggiungerlo, vedemmo una accurata fodera di rame. Anche la porta, di ferro massiccio, era stata similmente protetta e, allorché la facemmo girare sui cardini, essa rimandò, a causa del suo peso enorme, uno stridore acuto e singolare.
Deposto che avemmo il nostro macabro fardello, in quel luogo d'antichi orrori, su alcuni cavalletti, rialzammo leggermente il coperchio della bara che non era stato ancora inchiodato, e guardammo un istante il cadavere in volto. Io fui subito colpito dall'intensa rassomiglianza che essa aveva col fratello, ed Usher, il quale probabilmente aveva indovinato i miei pensieri di quell'istante, mormorò alcune parole dalle quali appresi che lui e la sorella erano gemelli e che talune e continue affinità di natura difficilmente analizzabile erano sempre esistite fra loro. E tuttavia non sostammo troppo a guardarla, da che ciò era impossibile senza rimanerne come atterriti. Il male che aveva sepolto quella giovinezza aveva lasciato, come appunto sogliono le malattie a carattere catalettico, la beffa d'un lieve rosato sul seno e sulle gote di Lady Madeline e quel sospetto e tardevole sorriso nella piega delle labbra che è così terribile a vedersi in volto alla morte. Rimettemmo il coperchio al suo luogo, lo avvitammo e, dopo avere sprangata la porta di ferro, ci incamminammo agli appartamenti superiori.
Dopo che egli ebbe trascorsi alcuni giorni nel più amaro cordoglio, il disordine mentale del mio amico pervenne a un visibile mutamento. I suoi modi ordinari non erano più quelli di prima. Le sue consuete occupazioni erano neglette o addirittura dimenticate. Egli vagava di stanza in stanza con passo vario, ora precipitato, ora stanco e soprattutto senza alcuna direzione o obbiettivo. Il pallore del suo volto aveva assunto - se possibile - una parvenza ancor più spettrale, ma anche il lustro dei suoi occhi era offuscato. Più non s'udiva il suo tono di voce rauco e insieme incisivo, ma solo un tremolo, come d'uno che sia posseduto da un estremo terrore. V'erano taluni momenti ch'io fui costretto a sospettare l'angoscia d'un laborioso segreto ch'egli studiava invano di profferire, abbandonato da ogni impulso coraggioso, ed altri ancora in cui lo sorprendevo in contemplazione, per delle ore, d'un punto morto, come di qualcuno che sia intento ad ascoltare, con sofferente attenzione, un immaginarlo rumore, così ch'io non esitavo a riconoscere, in quello strano comportamento, i segni dell'incipiente follia. Che c'è di straordinario, quindi, che il suo contegno avesse il risultato d'opprimer me, a mia volta, e malignamente crescere e addirittura d'arrivare quasi a contagiarmi? Io sentivo in me, per lenti ma pur sicuri stadi, l'influenza sregolata di quelle sue fantastiche superstizioni.
E fu in specie verso la settima e l'ottava notte che seguì il trasporto della bara di Lady Madeline nella segreta, che io esperimentai, in tutta la loro potenza, quelle sensazioni. Il sonno si rifiutava al mio guanciale, mentre le ore colavano lente. Ed io lottavo per rendermi ragione dei nervi scossi che mi dominavano. Volli, così, indurmi a credere che molto, se non tutto, ciò che io sentivo, era dovuto alla sconcertante influenza della fosca mobilia nella mia stanza, agli oscuri e logori cortinaggi tormentati dal soffio d'una veniente tempesta, che frusciavano lungo e giù per le mura e assediavano le decorazioni del mio letto col loro inquietante sussurro. Ma i miei sforzi, in quel senso, rimasero vani. Ed io, intanto, non sapevo dominare il terrore che m'invadeva man mano, fino a possedermi totalmente in un incubo angoscioso che mi schiantava il cuore. Pervenni, con uno sforzo più energico, a drizzarmi sul cuscino e, attraversando, con gli occhi spalancati, la fitta e densa oscurità della stanza, mi posi in ascolto - e non so davvero come e perché, certo soltanto per l'impulso istintivo d'un avvertimento soprannaturale - di certi rumori bassi e indefiniti che salivano, a lunghi intervalli, pur frammezzo il fragore dell'uragano, d'un luogo che non riuscivo a identificare. Posseduto da un intenso sentimento d'orrore, addirittura intollerabile, afferrai, in tutta fretta, i miei abiti e - dal momento che non potevo più sperare d'addormentarmi per quella notte - me ne vestii. E per sollevarmi dallo stato pietoso nel quale mi trovavo, cominciai a misurare in su e in giù il mio appartamento.
Avevo fatti soltanto pochi giri a questo modo, allorché un passo lieve su per la scala vicina impegnò di nuovo il mio ascolto. Riconobbi il passo di Usher. Un attimo appresso intesi il suo picchio leggero alla porta. Entrò, con una lampada in mano. La sua fisionomia non aveva in nulla cangiato il suo pallore di spettro, pur se una sorta d'ilarità del tutto irragionevole gli vacillava negli occhi già spenti. Del resto ogni suo gesto, ogni sua espressione, denunciava ch'egli era preda d'un orgasmo compresso e faticosamente dissimulato. Nonostante il suo aspetto fosse oppressivo a guardarsi, pure la solitudine, che tanto m'era pesata fino allora, fu causa ch'io accogliessi il suo ingresso con una specie di sollievo.
«E tu non l'hai veduto?», mi disse bruscamente, dopo qualche minuto di silenzio: «tu non l'hai veduto? Aspetta, allora, aspetta, lo vedrai».
E, così dicendo, riparò con cura la lampada e corse a una delle finestre con passo precipitato e la spalancò sull'uragano.
L'impeto furibondo d'una folata di vento ci svelse quasi dal pavimento. Era una terribile notte di tempesta, ma solennemente bella, nel selvaggio orrore della sua singolare magnificenza. Un risucchio di turbine mulinava, evidentemente, poco discosto dal castello, poiché la direzione del vento era del tutto instabile, e l'eccezionale densità delle nubi - tanto basse che sembrava premessero gli spalti - non impediva di riconoscere la rapidità colla quale, come animate da una misteriosa vita, accorrevano l'una addosso all'altra, schiacciandosi, da ogni angolo dell'orizzonte. Ho detto che la loro densità non impediva, tuttavia, di riconoscere questo fenomeno. Ma la luna non v'era, non v'erano stelle, non riflesso alcuno di lume all'intorno e la parte bassa di quelle immense e irrequiete nubi riluceva - similmente a tutto il resto degli oggetti nelle immediate vicinanze - d'una sorta di soprannaturale chiarità che scaturiva come da una esalazione gassosa, la quale pareva illanguidirsi a ogni istante, eppure teneva ostinatamente avvolto l'edificio come un viscido sudario.
«Non devi... Non puoi continuare a guardare!», dissi ad Usher con voce alterata, e gli feci violenza per allontanarlo dalla finestra e lo costrinsi a sedere. «Le visioni cui vai eccitandoti», proseguii, «non sono altro che fenomeni di elettricità e del tutto comuni. Ovvero hanno origine dai miasmi pestilenziali delle lame. Chiudiamo la finestra. L'aria gelata di questa notte non può che esserti letale. Io scorgo qui uno dei tuoi romanzi prediletti. Lo leggerò ad alta voce e tu nel frattempo ascolterai. Così passeremo la notte assieme...».
Il libro che avevo preso era una vecchia edizione del Mad Trist di Sir Launcelot Canning ed io gli avevo attribuito la qualità di libro preferito da Usher soltanto per dare spicco alla frase: nelle sue scialbe e ridicole lungaggini non vedevo, al momento d'imprenderne la lettura, che cos'avrebbe potuto interessare l'elevata spiritualità del mio amico. Ma dal momento che esso era il solo ch'io avessi a portata di mano, immaginai e sperai che l'agitazione da cui Usher continuava ad esser posseduto fosse per risentir qualche sollievo proprio nella suprema assurdità di ciò che stavo per leggere, e, d'altra parte, la storia delle malattie mentali, tanto piena di consimili anomalie, giustificava in pieno il tentativo. E di fatto fui subito ascoltato con attenzione profonda e tesa, così che avrei potuto ben rallegrarmi d'essere ricorso a quell'espediente.
Venni così a quel luogo notissimo nel quale l'eroe del racconto, Ethelred, dopo i vani tentativi per entrare pacificamente nell'abituro dell'eremita, s'appresta a usare la forza. Le parole del libro, com'è noto, sono le seguenti: «Ed Ethelred, che era sempre stato valoroso ed ora, grazie al vino bevuto, s'era sentito crescere la forza addosso, non volle rassegnarsi a continuare le trattative con l'eremita - il quale non v'è dubbio che avesse testa caparbia e maligna - che sentendo cader la pioggia sulle sue spalle e paventando non avesse a mutarsi presto in uragano, levò alta la mazza e, con tre o quattro colpi fortemente assestati, si aprì un passaggio framezzo alle tavole della porta, tanto che vi potesse passar la mano inguantata di ferro: traendo a sé, poi, con gran forza, essa porta, schiantò tutto in pezzi così che il fracasso del legno secco risuonò, gettando l'allarme, per tutta la foresta».
Avevo appena finito di leggere tale periodo che dovetti arrestarmi e trasalire. M'era parso infatti - e nondimeno l'attribuii subito a uno scherzo dell'immaginazione - d'udire in alcuna remota parte dell'edificio una sorta d'eco - ancorché soffocata e sorda - affatto rispondente al rumore del legno schiantato e fatto a pezzi così com'era stato descritto, con tanta esattezza, da Sir Launcelot. Io ero stato impressionato - senza dubbio - da una pura coincidenza, dacché, frammezzo ai lamenti dei telai alle finestre e a tutti gli altri altissimi suoni della tempesta sempre più infuriata, quella mia sensazione non aveva, per se stessa, nulla che sollecitasse così il mio interesse come il mio fastidio. Continuai, quindi, la mia lettura.
«Ma il buon campione Ethelred, entrato che fu per quella porta, si meravigliò e s'infuriò grandemente di non trovare veruna traccia del maligno eremita. Al suo luogo era, invece, un drago immane, orribile per il turbinoso scintillio delle squame e linguacciuto d'una sottile e svelta fiammella, il quale sorvegliava un grande palazzo tutto d'oro, coll'impiantito d'argento. Dalle mura del palazzo pendeva uno scudo di lucente bronzo, il quale recava la seguente scrittura:

Chi entra qui è un conquistatore:
Chi ucciderà il Drago, vincerà lo scudo.

Ed Ethelred levò nuovamente alta la mazza e la calò di poi con incredibile forza sulla testa del drago. Il quale stramazzò ai suoi piedi e assieme con l'anima appestata rese un urlo così orribile ed aspro ma anche così penetrante, che Ethelred dovette turar l'orecchie coll'intere mani per non esser atterrito da quel suono, il quale era il più agghiacciante che mai udisse».
E qui, di nuovo, dovetti interrompermi. E mi smarrii anche. Poiché non c'era dubbio, adesso, che non avessi udito - e tuttavia non avrei saputo dire donde esso mi venisse - un suono basso e apparentemente da lungi, ma insistente e aspro, simile a un prolungato stridore, in rispondenza perfetta, peraltro, con quello che avevo immaginato del soprannaturale urlo del drago.
Turbato, come certamente ero, per la seconda e ancor più straordinaria coincidenza, da una folla di contrastanti sensazioni, nelle quali predominavano tuttavia la meraviglia e il terrore, ritenni sufficiente presenza di spirito da consentirmi di non eccitare, con alcun rilievo attorno alla bizzarria del fenomeno, la mente stravolta del mio sensibilissimo compagno. Non ero ben sicuro che avesse udito quei suoni: e tuttavia egli aveva, da qualche minuto, assunto una posizione diversa e aveva spostato, man mano, la poltrona dove sedeva, dal luogo dov'era, di fronte a me, in altro che gli consentisse d'appuntare gli sguardi alla porta della stanza. Il tremore delle sue labbra, che mormoravano parole inafferrabili, era tutto ciò che potevo vedere di lui. Il capo gli pendeva sul petto, eppure, per quei suoi occhi spalancati e immobili ch'io gli vedevo di profilo, era evidente che non dormiva. E ancora escludeva ch'egli dormisse una sorta di leggero dondolio che aveva come impresso al suo corpo. Notato le ebbi tutto questo, ripresi la lettura.
«Ed ora il campione, scampato alla ferocia del drago, tornando colla mente allo scudo bronzeo e avvedutosi che l'incantesimo era infranto, sgomberò la carcassa del mostro, pose piede sull'impiantito d'argento del castello e mosse verso lo scudo appeso. E questo non attese propriamente d'esser raggiunto, e da sé medesimo si spiccò e precipitò ai piedi del cavaliere suscitando, col terribile fragore del metallo, gli echi vasti e potenti del palazzo».



Non appena tali parole, nelle loro sillabe precipitate, m'ebbero attraversate le labbra, io intesi distintamente un rumore metallico, profondo, risonante, eppure soffocato, simile a quello che avrebbe prodotto uno scudo di bronzo che fosse caduto pesantemente su una lastra d'argento. Mi levai dritto, preda d'un acceso nervosismo. Usher continuava ininterrottamente a dondolare sulla poltrona. Mi buttai su di lui. I suoi occhi fissavano spalancati la porta: tutto il suo viso aveva l'immobilità del marmo. Eppure bastò ch'io gli sfiorassi la spalla con una mano, perché egli si scotesse da capo a piedi con un tremito improvviso. Un sorriso malato vacillò sul suo labbro. Ma riguardando con maggiore attenzione m'avvidi ch'egli bisbigliava alcune parole precipitate, disarticolate, come se non fosse propriamente avvertito della mia presenza. Mi piegai, accanto a quelle sue labbra, in ascolto e pervenni infine a dare un senso alle sue frasi.
«Non odi? Io sì... io odo... io ho già udito ... a lungo... a lungo... per minuti... per ore... per intere giornate ... ho udito eppure non osavo... oh! pietà di me... miserabile ch'io sono... non osavo... non osavo parlare! Noi l'abbiamo chiusa ancor viva nella tomba! Non ti ho forse detto, più volte, che i miei sensi sono estremamente acutizzati? Ed ora io ti dico che ho avvertiti i suoi primi deboli movimenti nella bara! Da molti... da molti giorni io li avevo avvertiti ... ma non osavo... non osavo parlare! E adesso, stanotte, Ethelred ... ah!... ah!... La porta dell'Eremita che si schianta in mille pezzi! Il terribile rantolo del drago! Il fragore dello scudo! Dirai piuttosto lo squarciarsi della cassa e lo stridore dei cardini di ferro e la marcia disperata per il corridoio foderato di rame! Oh! Dove sarà scampo alla mia fuga? Non è certo, ormai, ch'ella sarà qui tra qualche istante? Non accorrerà a rimproverare la mia fretta? Non ho già forse uditi i suoi passi trascinarsi su per la scala? Non odo, forse, ora il battito orribile e pesante del suo cuore? Insensato!». Ed egli si levò, a questo punto, con uno scatto, e urlò, scandendo le sillabe con tale sforzo che l'anima sembrava esalarsi nelle parole: «Insensato! Io ti dico che essa è là, là, essa sta ritta là, dietro la porta!».
E quasi che la sovrumana carica d'energia dovuta alla sua esaltazione potesse come opera d'incantesimo parlare, i grandi battenti d'ebano antico che Usher indicava, schiusero lentamente le loro pesanti mascelle. Entrò una folata di vento infuriato. Ma dietro la porta, ravvolta nel sudario, stava l'alta figura di Lady Madeline Usher. Le sue vesti bianche erano lorde di sangue e per ogni punto della sua persona si scorgevano le tracce d'un combattimento atroce. Ella rimase un attimo, vacillando, anelante, sulla soglia. Poi emise un profondo lamento e nel contempo cadde pesantemente in avanti addosso alla persona del fratello, trascinando, nell'agonia suprema, il corpo di quella vittima del terrore che rotolò fulminato al suolo.
Fuggii al colmo dell'orrore da quella stanza, da quella casa. La tempesta disfogava ancor tutta la sua ira allorché mi trovai sul terrapieno. Una livida luce inondò all'improvviso la mia via ed io mi volsi a veder donde venisse, incuriosito dal suo stravagante splendore, dal momento che, alle mie spalle, io sospettavo soltanto l'immane ombra del castello. Era la luna nel suo pieno, che splendeva, insanguinata, attraverso la fessura - appena visibile una volta - che correva a zig-zag lungo la facciata, dal tetto alle fondamenta. Nel mentre che io riguardavo, quella spaccatura s'allargava rapidamente. Un turbine di vento discopriva in quel punto l'intero disco della luna ed io vidi - mentre sentivo mancarmi - crollar le possenti muraglie del castello. Uno strepito grandioso e tumultuante rispose, con la voce di mille cateratte, e la buia palude al miei piedi si richiuse in un tetro silenzio, sulle rovine della CASA USHER.

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