L'Undicesima battaglia dell'Isonzo fu combattuta durante la Prima guerra mondiale (17 agosto – 31 agosto 1917) sul fronte delle operazioni italiano, fra il Regio Esercito e l'esercito austro-ungarico.
La Bainsizza è un altopiano boscoso (ma all'epoca dei fatti sassoso, arido e desolato, dicono) tra i fiumi Idra e Isonzo, ai margini della Venezia Giulia, ora in territorio sloveno. Fortificata dagli austriaci e difesa da due campi trincerati di Tolmino e dell'Hermada, fu teatro di una delle più sanguinose battaglie della Prima guerra mondiale, combattuta dal 17 agosto al 12 settembre 1917. L'esercito italiano compì, inutilmente, una delle più brillanti azioni tattiche dell'intero conflitto.
Luigi Cadorna, il capo di stato maggiore italiano, aveva concentrato tre quarti delle sue truppe presso il fiume Isonzo: 600 battaglioni (52 divisioni) con 5.200 pezzi d'artiglieria. L'attacco venne sferrato su un fronte che si estendeva da Tolmino (nella valle superiore dell'Isonzo) fino al mare Adriatico. Gli italiani attraversarono il fiume in più punti su ponti di fortuna, ma lo sforzo maggiore venne fatto sull'altopiano della Bainsizza, la cui conquista aveva lo scopo di far proseguire l'avanzata e di rompere le linee austro-ungariche in due, isolando le roccheforti del Monte San Gabriele ed Ermada. Durante questa offensiva vennero utilizzati per la prima volta i Reparti d'Assalto o Arditi.
Dopo un combattimento aspro e sanguinoso, la Seconda Armata italiana (comandata dal generale Capello), fece indietreggiare gli austro-ungarici, conquistando la Bainsizza e il Monte Santo. Altre postazioni furono occupate dalla Terza Armata del Duca d'Aosta.
Il Monte San Gabriele, che fino ad allora era stato considerato inespugnabile, fu conquistato da tre compagnie di Arditi in soli 40 minuti, portando alla cattura di 3000 prigionieri. Purtroppo invece il Monte Hermada si confermò inespugnabile, e l'offensiva si arrestò. Dopo la battaglia, le forze austro-ungariche erano sull'orlo del collasso, e non avrebbero potuto sostenere un altro attacco. Tuttavia gli italiani si trovavano nelle medesime condizioni, e non avrebbero potuto trovare le risorse per un'altra offensiva. La battaglia finì così in un bagno di sangue sostanzialmente inconclusivo.
La battaglia venne combattuta anche da Sandro Pertini con il grado di tenente che per aver espugnato con pochi uomini delle postazioni difese da mitragliatrici venne proposto alla medaglia d'argento al valor militare. La medaglia non venne approvata subito e, successivamente, il regime fascista occultò la notizia, dato che Pertini era socialista e antifascista. La richiesta di medaglia venne riscoperta quando Pertini venne eletto Presidente della Repubblica Italiana ma gli venne consegnata solo nel 1985 allo scadere del suo mandato da Presidente della Repubblica per sua esplicita richiesta.[2]
Sequenza degli eventi
Nell'estate del 1917 si manifestò un nuovo sforzo offensivo da parte italiana, che oltre dalla precarietà delle posizioni sia nel settore di Plavasia del Carso a seguito della Decima battaglia dell'Isonzo, era dovuto alle pressioni degli alleati e dal pericolo di un'offensiva austro-ungarica, fattosi certo più grave dopo lo sfacelo della Russia. La nuova offensiva italiana fu affidata principalmente alla 2a Armata (gen. Capello) forte di ben sei Corpi d'armata, dalla conca di Plezzo al Vipacco; l'VIII Corpo, schierato all'estrema destra, era destinato a collegare le operazioni della 2a Armata con quelle della 3a. Questa, che doveva anch'essa svolgere una parte importante della battaglia, era schierata su quattro Corpi d'armata. Il Comando Supremo italiano, per tale poderoso sforzo, aveva quivi riunito circa i tre quarti delle truppe disponibili (oltre 600 battaglioni degli 887 disponibili) e circa duemila bocche da fuoco di tutti i calibri.
Di fronte alle due armate italiane si schierarono la 5a Armata austro-ungarica, che dopo la Decima battaglia dell'Isonzo era stata ribattezzata Isonzo Armée. Essa comprendeva adesso tre Corpi d'armata, con 13 Divisioni, sul fronte a nord di Gorizia, e due Corpi, con 9 Divisioni, sul fronte sud; qualche altra Divisione sopravvenne in rinforzo durante l'offensiva italiana. Tale offensiva venne concepita come un attacco a fondo sull'intero fronte dall'Idria al mare, ma le punte principali dovevano mirare, per la 2a Armata, alla conquista dell'altopiano di Tarnova, attraverso la Bainsizza, e per la 3a a quella dell'altopiano di Comeno. Il Comando della 2a Armata italiana, si proponeva di sfondare le linee avversarie tra Podselo e il Monte Santo, in corrispondenza cioè, dell'altopiano della Bainsizza, con un potente nucleo di truppe costituito dai Corpi d'armata XXVII, XXIV e II; il primo avrebbe dovuto gravitare con la sua manovra principalmente verso nord, per determinare la caduta della testa di ponte di Tolmino, e gli altri due avrebbero dovuto tendere a raggiungere prima la linea presso Chiapovano, principale arteria di comunicazione tra Tolmino e Gorizia, ed assalire poi il massiccio di Tarnova.
Qualora tutti gli obiettivi fossero stati raggiunti, sarebbe stato scardinato tutto il fianco delle difese austro-ungariche sulle alture di Gorizia e sul Carso; la 3a Armata, infine, con un attacco frontale avrebbe dovuto spezzare le linee carsiche e sospingerle indietro, verso Trieste. La grande battaglia ebbe inizio, il mattino del 18 agosto 1917, con un fuoco molto nutrito di artiglierie italiane: a sera, mentre lunghe file di incendi segnavano le retrovie austro-ungariche, gli italiani iniziarono il passaggio dell'Isonzo nelle località prestabilite di Iavor, Doblari e Ronzina per il XXVII Corpo; di Loga, Aiba, Bòdres, Canale e Anicova Corada per il XXIV; operazione ardua e complessa, sia per le difficoltà opposte dal fiume, che corre in quel tratto in alveo ristretto, dominato da sponde alte ed erte, sia per l'andamento e la consistenza delle linee austro-ungariche sull'altra sponda.
Gli austro-ungarici, infatti, non tardarono ad entrare in azione, per impedire a tutti i costi il forzamento del fiume, così che all'alba del 19 agosto, gli italiani non riuscirono che costruire appena la metà dei passaggi progettati. Il XXVII (gen. Vanzo) soprattutto incontrò difficoltà nel gittamento dei ponti, due soli dei quali poterono essere messi in efficienza: ciò che poi ebbe ripercussione notevole su tutto l'esito della battaglia. Truppe di quel Corpo d'armata, infatti, che non avevano potuto traghettare come dovevano, presso Iavor, dovettero affluire ai ponti costruiti più a sud, ritardando ed intralciando i movimenti e venendo inoltre a trovarsi più a valle, e più lontane quindi dalle direttrici di attacco loro assegnate. La battaglia, intanto, si era impegnata su tutto il fronte. Mentre il IV Corpo (gen. Cavaciocchi) a nord e il VI (gen. Gatti) a sud impegnavano gli austro-unagrici, sul Monte Rosso e sul Merzli il primo e sulle alture di Gorizia il secondo, le truppe del XXVII Corpo che eran potute passare sulla sinistra, attaccavano le difese A.U. di Auzza e tentavano di passare il torrente Auzzana fortemente difeso; il II (gen. Badoglio), superate le difese a Descla, avanzava ad ovest di Plava, e sulla fronte del XXIV (gen. Caviglia) la 47a Divisione del generale Fara lanciava le sue brigate di Bersaglieri sul tratto delle alture Fratta - Semmer - Cucco, travolgendone i difensori A.U.
L'altra Divisione del XXIV Corpo (la 60a) era però ferma davanti a Canale, di cui gli austro-ungarici avevano fatto un vero fortalizio, irto di mitragliatrici; anche qui perciò venne meno la simultaneità delle due Divisioni. Il mattino del 20 agosto, mentre le artiglierie italiane chiudevano Canale in una cerchia di fuoco, il 12o Bersaglieri vi convergeva minacciando di aggirarne i difensori, che si videro costretti così a lasciare libero il passo alla 60a Divisione. Nella notte, intanto, erano stati riattivati i ponti danneggiati dal tiro austro-ungarico e costruite altre passerelle, in modo da poter intensificare il passaggio delle truppe, specialmente sul fronte del XXVII Corpo; tuttavia, ancora all'alba del 20 agosto taluni reparti di questa grande unità si trovavano sulla destra del fiume, mentre le altre truppe di essa si sforzavano ancora a vincere la resistenza austro-ungarica sull'Auzzana ed alla testa della valle di Sirocaniva, dominata dalla quota 645. Il XXIV Corpo italiano, invece, consolidata l'occupazione della cresta Fratta-Semmer, puntava risolutamente contro i capisaldi difensivi della linea principale della Bainsizza: l'Osoiniza, Uolchi e Ielenico. Nella giornata del 21 agosto, le truppe del XXVII Corpo italiano, rinforzate da altri reparti, s'impadronirono di Auzza e passarono l'Auzzana, dirigendosi verso la fronte Monte Veli - Pieve di Leupa. Per parare poi l'allargamento del fronte e per risospingere verso Lom di Tolmino il XXVII Corpo, che stava tendendo verso sud, un altro Corpo d'armata, il XVII (gen. Sagramoso), venne inserito tra il XXVII e il XXIV. Questo, intanto, procedeva vittoriosamente espugnando l'Osoiniza, il Cucco e l'Uolchi; quest'ultimo venne poi temporaneamente da esso riperduto. Avanzava decisamente anche il II Corpo italiano, che aveva già determinato la caduta del Monte Santo; tra il pomeriggio del 22 agosto e la giornata del 23 agosto gi ultimi capisaldi della difesa austro-ungarica, lo Ielenico, l'Uolchi e il Monte Cavallo caddero sotto la furia degli assalti italiani; l'intera conca di Verco di Canale e quella di Battaglia della Bainsizzapassarono in mano italiane.
Il 23 agosto stesso, gli austro-ungarici disponevano la ritirata sulla linea marginale dell'altopiano, Mesnià - Cal di Canale - Madoni - Zagorie, coprente la strada di Chiapovano. Le truppe italiane, mosse subito all'inseguimento, trovarono ovunque tracce della rotta avversaria, raccogliendo un bottino enorme di cannoni (135), bombarde (29), mitragliatrici (circa 200) ed oltre 19 000 prigionieri, dei quali 540 ufficiali. Queste vittorie per gli italiani, non ebbero però l'esito che per l'imponenza dei mezzi impiegati sarebbe stato lecito sperare; esse si risolsero in un semplice successo tattico, senza dare quello strategico per il quale erano state combattute. Dal 25 agosto si susseguirono azioni d'assestamento delle posizioni italiane, che però divennero difficili da mantenere vista la totale mancanza di strade, per i rifornimenti e l'avanzata delle artiglierie, assieme ad un terreno privo di acque superficiali e risorse, che rendeva molto difficile la vita delle truppe.
Il 29 agosto, quindi, il Comando Supremo italiano diede l'ordine di sospendere l'offensiva e di tentare soltanto uno sforzo estremo contro il blocco delle organizzazioni difensive a nord e a est di Gorizia, ritenendo che l'espugnazione di esse avrebbe potuto favorire le ultime operazione della 3a Armata. Questa aveva iniziato anch'essa il giorno 19 agosto 1917le sue operazioni, dopo un intenso e prolungato bombardamento, cui avevano preso parte dal mare anche batterie natanti della Regia Marina e monitori italiani ed inglesi. Subito, però, dalle linee austro-ungariche vi fu una resistenza più decisa e tenace che nelle offensive italiane precedenti. Le truppe della 3a Armata, al comando del Duca d'Aosta, si erano slanciate in avanti, ma qualche vantaggio conseguito dall'VII Corpo d'armata (gen. Ricci Armani) sulle alture di Tivoli dall'XI (gen. Petitti di Roreto) e dal XXV (gen. Ravazza) nella zona Faiti - Castagnevizza non poterono essere poi mantenute.
Solo sulla destra, verso il mare il XXIII Corpo (gen. Diaz) e il XII (gen. Sailer) riuscirono a fare qualche progresso, il primo in direzione di Versici e di Sella delle Trincee ed il secondo verso San Giovanni, oltre le paludi del Locovaz. Nei giorni seguenti, sul Carso, avvennero aspre lotte tra le truppe italiane della 57a e 58a Divisione e quelle austro-ungariche nei pressi della quote 464 (Monte Grandee 378 rispettivamente ad est e ad ovest del Fáiti, le cui trincee passarono di mano in mano più volte ed infine rimasero in mano austro-ungariche.
Più a sud, invece, il XXII Corpo italiano riuscì ad oltrepassare Versici, Corite e Sella, spingendosi nel Vallone di Brestovizza, occupando e refforzando la quota 50 (poco a sud della quota 58 di Moschenizza); il XIII Corpo italiano espugnò la piccola altura di quota 40 (sopra la galleria ferroviaria di San Giovanni) ed avanzò fin oltre la linea ferroviaria e le rovine di San Giovanni, catturando oltre un migliaio di prigionieri ed alcuni cannoni. Era tuttavia evidente che non si sarebbe ormai potuto, da parte italiana, conseguire un successo uniforme e decisivo su tutta la fronte. Perciò, il 23 agosto 1917, il Comando Supremo italiano decise di sospendere le azioni sul Carso.
Il 4 settembre gli austro-ungarici regirono con un violento controattacco contro tutta il fronte del XXIII e del XIII Corpo d'armata italiano: mentre le truppe del XXIII riuscirono a contrattaccare e ricacciare le truppe nemiche, quelle del XIII furono costrette ad abbandonare quasi tutto il terreno conquistato. Il 5 e i 6 settembre le truppe italiane si sospinsero fino alla linea della ferrovia ma ripiegarono poi nelle linee di partenza. Il giorno stesso che si sferrava sull'altopiano Carsico il contrattacco austriaco, la 2a Armata italiana, dopo un bombardamento molto intenso, per il quale erano state concentrate nel breve tratto tra il San Gabriele e il San Marco oltre 700 bocche da fuoco di medio e grosso calibro, iniziava l'attacco dell'arco di alture che cinge Gorizia.
L'11a Divisione del VI Corpo dava quindi la scalata alle pendici del San Gabriele, riuscendo a raggiungere la linea di cresta tra la quota 552 e quota 646 (Monte San Gabriele) e catturando circa 200 prigionieri. Poco più tardi però, un contrattacco austro-ungarico obbligò gli italiani a ritirarsi a un centinaio di metri al di sotto della vetta. Nei giorni seguenti, fino al 10 settembre 1917, il San Gabriele fu teatro di una lotta incessante e sanguinosa; come in una voragine ardente, interi reggimenti vi furono consumati da una parte e dall'altra. Il Comando della 2a Armata pensò di poter vincere la resistenza dei difensori del San Gabriele isolandoli con un nutrito bombardamento senza tregua del territorio circostante, dal quale però dovette desistere dopo quale giorno sia per l'enorme consumo di munizioni sia per i poderosi lavori di caverne e gallerie eseguiti dagli austro-ungarici che gli permettevano di resistere senza molte difficoltà. All'alba dell'11 settembre 1917, poi, tutte le attigue posizioni italiane della Sella di Dol a Santa Caterina vennero violentemente bombardate dagli avversari. Gli italiani, con diversi scaglioni di fanteria, attaccarono il vicino Col Grande e il San Gabriele, e dopo un primo indietreggiamento, riuscirono a ristabilire la situazione. Il giorno seguente il contrattacco austro-ungarico si estese anche al San Gabriele.
Sull'altopiano della Bainsizza, intanto, erano continuate le azioni locali, per migliorare e consolidare le posizioni italiane sulle linee avanzate, azioni che culminarono, il 15 settembre 1917, in un attacco della Brigata Sassari che condusse, il giorno 29 settembre alla conquista di quota 816 (Gomila), a sud-est di Madoni, un importante caposaldo il cui possesso permetteva il dominio di tutta la parte superiore del Vallone di Chiapovano. Tale conquista (poi risultata come il punto più orientale dell'avanzata italiana prima della ritirata al Piave) fu dovuta alle truppe italiane della 44a Divisione guidate dal gen. Achille Papa (che qui cadde il 5 ottobre 1917 e a cui in seguito venne dedicata l'altura, Quota Papaappunto) che permise la cattura di 2460 prigionieri tra cui 54 ufficiali; all'azione vi prese parte che la Brigata Venezia attraverso il 83o ed 84ofanteria.
La più vasta ed importante battaglia sin allora combattuta da parte italiana si concluse con un bilancio che in maniera decisa aveva portato gli austro ungarici vicino ad una crisi. Sarà questa grave situazione che convincerà gli alleati tedeschi a concentrare i propri sforzi sul fronte italiano (dopo essersi liberati del fronte russo) e organizzare l'offensiva di Caporetto.
L'«episodio» dell'Ortigara, costato due mesi prima la perdita, tra morti e feriti, di 24.000 italiani e 12.000 austriaci, aveva portato il solo risultato concreto di rassicurare il comando italiano che nel settore trentino non esistevano pericoli immediati di attacchi austriaci.
Il generale Cadorna poté così dedicarsi all'organizzazione di una nuova battaglia sull'Isonzo, l'undicesima della serie. Fece convergere sul fronte isontino il più grande numero di uomini e materiali che fosse mai stato visto prima: 51 divisioni con 5.200 pezzi di artiglieria.
Il piano studiato da Cadorna prevedeva una duplice azione attorno al fiume Vipacco. A nord le truppe italiane si sarebbero dovute muovere dall'altipiano della Bainsizza per raggiungere quello di Tarnova. Più a sud, sul Carso, si sarebbero dovute portare sull'altipiano di Comen e conquistare il monte Hermada. In questa maniera avrebbero accerchiato le postazioni austriache attorno a Gorizia.
Ma il generale Capello, comandante della Seconda Armata collocata a nord dello schieramento italiano, suggerì alcune modifiche. Secondo Capello era meglio estendere più a nord il campo d'azione, in direzione della testa di ponte di Tolmino. Non era una modifica da poco, perché - pur mantenendo lo stesso numero di uomini e mezzi - invece di due operazioni se ne attivavano tre: Tolmino, Bainsizza e Carso. E iniziò proprio a nord l'offensiva destinata al primo fallimento. Dopo i primi successi e la cattura di 600 prigionieri, l'offensiva infatti si bloccò a Tolmino. Poco dopo anche sul Carso l'iniziativa italiana fu presto bloccata.
Gli storici rimproverano a Capello di non aver fatto convergere le sue truppe verso il centro, cioè verso l'altipiano della Bainsizza che era l'obbiettivo originale e primario dell'intero disegno strategico di Cadorna, dove le truppe guidate dal Generale Caviglia avevano invece registrato l'unico vero successo dell'operazione. Per qualche sua stana convinzione, Capello invece continuò la spinta (inutile) verso Tolmino.
Dal canto suo Caviglia, con notevoli sforzi, poté allargare il cuneo sulla Bainsizza. Ma, trovandosi sguarnito sulle ali destra e sinistra, la sua posizione venne bloccata in una sacca.
Se a nord ci eravamo andati a impelagare a Tolmino, anche a sud avevamo l'«indomabile bestia» dell'Hermada. Friz Weber la definì così nel suo famosissimo libro «Tappe della disfatta», perché da lungo tempo era divenuta una fortezza gigantesca. L'«indomabile bestia», doveva resistere a qualunque costo, perché rappresentava la chiave di volta dell'intero dispositivo di difesa austriaco. Su mille metri di linea si trovavano trenta chilometri di trincee, camminamenti, ripari, osservatori blindati, dozzine di caverne, nidi di mitragliatrici e migliaia di artiglierie. Battuta da tre lati, specialmente da punta Sdobba (una lingua di terra intersecata da canali, dove su pontoni e su piazzole di cemento erano postate settanta batterie di grosso e medio calibro, difficili da colpire), l'Hermada resistette agli assalti delle fanterie italiane che muovevano attacco dalle loro linee.
La Bainsizza, dicevamo, è un altipiano che scende con fianchi ripidi sull'Isonzo da una parte e sul solco del fiume Idria dall'altra, portandosi così a ridosso della piana di Gorizia. L'operazione prevedeva come primo scalino la conquista del Kuk-Vodice, da dove si doveva dare l'assalto al bastione principale e superarlo, per poi scendere nella conca di Vrh per salire poi sulla parte settentrionale della Bainsizza.
L'avanzata è stata profonda, 12 chilometri, e il nemico è stato messo in rotta. Nella notte sul 24, però, si sottrasse alla nostra stretta e i nostri soldati si trovarono indecisi, impreparati come tutti gli eserciti di allora a reagire di fronte a un vuoto lasciato dal nemico in fuga. E questo bastò a dare al nemico il tempo di imbastire una nuova linea, sulla quale la spinta dei nostri alla fine si infranse. I rincalzi e l'artiglieria nessuno seppe organizzarli per tempo. Pur avendo fatto questa strepitosa avanzata, che ci portava al vallone di Chiapovano, ci si arrestò per insufficienza logistica.
In questa fase, mirabile fu l'opera dei genieri che gettarono ponti e passerelle sull'Isonzo, battuti dal tiro delle batterie e delle mitragliatrici austeriache; splendido l'ardimento dei fanti e degli alpini che forzarono il passaggio del fiume, ridotti a servirsi anche di un solo ponte, quello di Dopplar e di una stretta passerella. Da questi ponti, la sera del 19 agosto, passarono alla sinistra dell'Isonzo la brigata «Ferrara» e due battaglioni alpini, il «Pelmo» e l' «Albergian». Ma la situazione non era così disperata per gli Austriaci, perché stavano arrivando riserve provenienti dal fronte russo, disimpegnato dalla firma dell'armistizio. Capello questo non lo sapeva e, esaltato più del necessario dal successo, ordinò addirittura alla cavalleria di lanciarsi all' inseguimento del nemico «in rotta». Ma i versanti che dalla sinistra dominano la conca di Tolmino, non erano stati conquistati e la sera del 25 agosto ogni attacco venne respinto.
In sintesi, quanto accadde alla Seconda Armata di Capello era la ripetizione di quanto già accaduto all'austriaco Conrad nel corso della Strafexpedition: lo sfondamento non era stato seguito dalla elefantesca macchina di un esercito di trincea.
Il 26 agosto il Comando Supremo dovette dare l'ordine di sospendere momentaneamente le operazioni. Ordine che divenne definitivo il 29, quando risultò impossibile spostare la Terza Armata, soprattutto per difetto di munizioni… Il consumo era stato superiore ad ogni previsione. Dal 18 agosto ai primi di settembre (quando si cessò di combattere anche sul Monte Santo) gli austriaci avevano sparato 1.500.000 di colpi di piccolo calibro, 250.000 di medio calibro, 22.000 di mortai e uguale era stato il consumo da parte italiana.
Le perdite furono gravissime: gli austriaci denunciarono 10.000 morti, 45.000 feriti, 30.000 dispersi, 28.000 ammalati, oltre 150 pezzi d' artiglieria. Gli italiani lamentarono 40.000 morti, 108.000 feriti, 18.000 dispersi, ben più del doppio della inutile battaglia dell'Ortigara.
Ma stavolta almeno si poterono vantare notevoli vantaggi territoriali. Il dispositivo di difesa austriaco scricchiolava paurosamente. Tanto vero che il Comando in capo dovette confessare all'alleato tedesco di non ritenersi più in grado di sostenere una nuova battaglia difensiva.
La Germania avvertì la minaccia e decise di intervenire massicciamente. La vittoria della Bainsizza doveva costarci di lì a poco, la sconfitta inattesa di Caporetto.
La Bainsizza è un altopiano boscoso (ma all'epoca dei fatti sassoso, arido e desolato, dicono) tra i fiumi Idra e Isonzo, ai margini della Venezia Giulia, ora in territorio sloveno. Fortificata dagli austriaci e difesa da due campi trincerati di Tolmino e dell'Hermada, fu teatro di una delle più sanguinose battaglie della Prima guerra mondiale, combattuta dal 17 agosto al 12 settembre 1917. L'esercito italiano compì, inutilmente, una delle più brillanti azioni tattiche dell'intero conflitto.
Luigi Cadorna, il capo di stato maggiore italiano, aveva concentrato tre quarti delle sue truppe presso il fiume Isonzo: 600 battaglioni (52 divisioni) con 5.200 pezzi d'artiglieria. L'attacco venne sferrato su un fronte che si estendeva da Tolmino (nella valle superiore dell'Isonzo) fino al mare Adriatico. Gli italiani attraversarono il fiume in più punti su ponti di fortuna, ma lo sforzo maggiore venne fatto sull'altopiano della Bainsizza, la cui conquista aveva lo scopo di far proseguire l'avanzata e di rompere le linee austro-ungariche in due, isolando le roccheforti del Monte San Gabriele ed Ermada. Durante questa offensiva vennero utilizzati per la prima volta i Reparti d'Assalto o Arditi.
Dopo un combattimento aspro e sanguinoso, la Seconda Armata italiana (comandata dal generale Capello), fece indietreggiare gli austro-ungarici, conquistando la Bainsizza e il Monte Santo. Altre postazioni furono occupate dalla Terza Armata del Duca d'Aosta.
Il Monte San Gabriele, che fino ad allora era stato considerato inespugnabile, fu conquistato da tre compagnie di Arditi in soli 40 minuti, portando alla cattura di 3000 prigionieri. Purtroppo invece il Monte Hermada si confermò inespugnabile, e l'offensiva si arrestò. Dopo la battaglia, le forze austro-ungariche erano sull'orlo del collasso, e non avrebbero potuto sostenere un altro attacco. Tuttavia gli italiani si trovavano nelle medesime condizioni, e non avrebbero potuto trovare le risorse per un'altra offensiva. La battaglia finì così in un bagno di sangue sostanzialmente inconclusivo.
La battaglia venne combattuta anche da Sandro Pertini con il grado di tenente che per aver espugnato con pochi uomini delle postazioni difese da mitragliatrici venne proposto alla medaglia d'argento al valor militare. La medaglia non venne approvata subito e, successivamente, il regime fascista occultò la notizia, dato che Pertini era socialista e antifascista. La richiesta di medaglia venne riscoperta quando Pertini venne eletto Presidente della Repubblica Italiana ma gli venne consegnata solo nel 1985 allo scadere del suo mandato da Presidente della Repubblica per sua esplicita richiesta.[2]
Sequenza degli eventi
Nell'estate del 1917 si manifestò un nuovo sforzo offensivo da parte italiana, che oltre dalla precarietà delle posizioni sia nel settore di Plavasia del Carso a seguito della Decima battaglia dell'Isonzo, era dovuto alle pressioni degli alleati e dal pericolo di un'offensiva austro-ungarica, fattosi certo più grave dopo lo sfacelo della Russia. La nuova offensiva italiana fu affidata principalmente alla 2a Armata (gen. Capello) forte di ben sei Corpi d'armata, dalla conca di Plezzo al Vipacco; l'VIII Corpo, schierato all'estrema destra, era destinato a collegare le operazioni della 2a Armata con quelle della 3a. Questa, che doveva anch'essa svolgere una parte importante della battaglia, era schierata su quattro Corpi d'armata. Il Comando Supremo italiano, per tale poderoso sforzo, aveva quivi riunito circa i tre quarti delle truppe disponibili (oltre 600 battaglioni degli 887 disponibili) e circa duemila bocche da fuoco di tutti i calibri.
Di fronte alle due armate italiane si schierarono la 5a Armata austro-ungarica, che dopo la Decima battaglia dell'Isonzo era stata ribattezzata Isonzo Armée. Essa comprendeva adesso tre Corpi d'armata, con 13 Divisioni, sul fronte a nord di Gorizia, e due Corpi, con 9 Divisioni, sul fronte sud; qualche altra Divisione sopravvenne in rinforzo durante l'offensiva italiana. Tale offensiva venne concepita come un attacco a fondo sull'intero fronte dall'Idria al mare, ma le punte principali dovevano mirare, per la 2a Armata, alla conquista dell'altopiano di Tarnova, attraverso la Bainsizza, e per la 3a a quella dell'altopiano di Comeno. Il Comando della 2a Armata italiana, si proponeva di sfondare le linee avversarie tra Podselo e il Monte Santo, in corrispondenza cioè, dell'altopiano della Bainsizza, con un potente nucleo di truppe costituito dai Corpi d'armata XXVII, XXIV e II; il primo avrebbe dovuto gravitare con la sua manovra principalmente verso nord, per determinare la caduta della testa di ponte di Tolmino, e gli altri due avrebbero dovuto tendere a raggiungere prima la linea presso Chiapovano, principale arteria di comunicazione tra Tolmino e Gorizia, ed assalire poi il massiccio di Tarnova.
Qualora tutti gli obiettivi fossero stati raggiunti, sarebbe stato scardinato tutto il fianco delle difese austro-ungariche sulle alture di Gorizia e sul Carso; la 3a Armata, infine, con un attacco frontale avrebbe dovuto spezzare le linee carsiche e sospingerle indietro, verso Trieste. La grande battaglia ebbe inizio, il mattino del 18 agosto 1917, con un fuoco molto nutrito di artiglierie italiane: a sera, mentre lunghe file di incendi segnavano le retrovie austro-ungariche, gli italiani iniziarono il passaggio dell'Isonzo nelle località prestabilite di Iavor, Doblari e Ronzina per il XXVII Corpo; di Loga, Aiba, Bòdres, Canale e Anicova Corada per il XXIV; operazione ardua e complessa, sia per le difficoltà opposte dal fiume, che corre in quel tratto in alveo ristretto, dominato da sponde alte ed erte, sia per l'andamento e la consistenza delle linee austro-ungariche sull'altra sponda.
Gli austro-ungarici, infatti, non tardarono ad entrare in azione, per impedire a tutti i costi il forzamento del fiume, così che all'alba del 19 agosto, gli italiani non riuscirono che costruire appena la metà dei passaggi progettati. Il XXVII (gen. Vanzo) soprattutto incontrò difficoltà nel gittamento dei ponti, due soli dei quali poterono essere messi in efficienza: ciò che poi ebbe ripercussione notevole su tutto l'esito della battaglia. Truppe di quel Corpo d'armata, infatti, che non avevano potuto traghettare come dovevano, presso Iavor, dovettero affluire ai ponti costruiti più a sud, ritardando ed intralciando i movimenti e venendo inoltre a trovarsi più a valle, e più lontane quindi dalle direttrici di attacco loro assegnate. La battaglia, intanto, si era impegnata su tutto il fronte. Mentre il IV Corpo (gen. Cavaciocchi) a nord e il VI (gen. Gatti) a sud impegnavano gli austro-unagrici, sul Monte Rosso e sul Merzli il primo e sulle alture di Gorizia il secondo, le truppe del XXVII Corpo che eran potute passare sulla sinistra, attaccavano le difese A.U. di Auzza e tentavano di passare il torrente Auzzana fortemente difeso; il II (gen. Badoglio), superate le difese a Descla, avanzava ad ovest di Plava, e sulla fronte del XXIV (gen. Caviglia) la 47a Divisione del generale Fara lanciava le sue brigate di Bersaglieri sul tratto delle alture Fratta - Semmer - Cucco, travolgendone i difensori A.U.
L'altra Divisione del XXIV Corpo (la 60a) era però ferma davanti a Canale, di cui gli austro-ungarici avevano fatto un vero fortalizio, irto di mitragliatrici; anche qui perciò venne meno la simultaneità delle due Divisioni. Il mattino del 20 agosto, mentre le artiglierie italiane chiudevano Canale in una cerchia di fuoco, il 12o Bersaglieri vi convergeva minacciando di aggirarne i difensori, che si videro costretti così a lasciare libero il passo alla 60a Divisione. Nella notte, intanto, erano stati riattivati i ponti danneggiati dal tiro austro-ungarico e costruite altre passerelle, in modo da poter intensificare il passaggio delle truppe, specialmente sul fronte del XXVII Corpo; tuttavia, ancora all'alba del 20 agosto taluni reparti di questa grande unità si trovavano sulla destra del fiume, mentre le altre truppe di essa si sforzavano ancora a vincere la resistenza austro-ungarica sull'Auzzana ed alla testa della valle di Sirocaniva, dominata dalla quota 645. Il XXIV Corpo italiano, invece, consolidata l'occupazione della cresta Fratta-Semmer, puntava risolutamente contro i capisaldi difensivi della linea principale della Bainsizza: l'Osoiniza, Uolchi e Ielenico. Nella giornata del 21 agosto, le truppe del XXVII Corpo italiano, rinforzate da altri reparti, s'impadronirono di Auzza e passarono l'Auzzana, dirigendosi verso la fronte Monte Veli - Pieve di Leupa. Per parare poi l'allargamento del fronte e per risospingere verso Lom di Tolmino il XXVII Corpo, che stava tendendo verso sud, un altro Corpo d'armata, il XVII (gen. Sagramoso), venne inserito tra il XXVII e il XXIV. Questo, intanto, procedeva vittoriosamente espugnando l'Osoiniza, il Cucco e l'Uolchi; quest'ultimo venne poi temporaneamente da esso riperduto. Avanzava decisamente anche il II Corpo italiano, che aveva già determinato la caduta del Monte Santo; tra il pomeriggio del 22 agosto e la giornata del 23 agosto gi ultimi capisaldi della difesa austro-ungarica, lo Ielenico, l'Uolchi e il Monte Cavallo caddero sotto la furia degli assalti italiani; l'intera conca di Verco di Canale e quella di Battaglia della Bainsizzapassarono in mano italiane.
Il 29 agosto, quindi, il Comando Supremo italiano diede l'ordine di sospendere l'offensiva e di tentare soltanto uno sforzo estremo contro il blocco delle organizzazioni difensive a nord e a est di Gorizia, ritenendo che l'espugnazione di esse avrebbe potuto favorire le ultime operazione della 3a Armata. Questa aveva iniziato anch'essa il giorno 19 agosto 1917le sue operazioni, dopo un intenso e prolungato bombardamento, cui avevano preso parte dal mare anche batterie natanti della Regia Marina e monitori italiani ed inglesi. Subito, però, dalle linee austro-ungariche vi fu una resistenza più decisa e tenace che nelle offensive italiane precedenti. Le truppe della 3a Armata, al comando del Duca d'Aosta, si erano slanciate in avanti, ma qualche vantaggio conseguito dall'VII Corpo d'armata (gen. Ricci Armani) sulle alture di Tivoli dall'XI (gen. Petitti di Roreto) e dal XXV (gen. Ravazza) nella zona Faiti - Castagnevizza non poterono essere poi mantenute.
Solo sulla destra, verso il mare il XXIII Corpo (gen. Diaz) e il XII (gen. Sailer) riuscirono a fare qualche progresso, il primo in direzione di Versici e di Sella delle Trincee ed il secondo verso San Giovanni, oltre le paludi del Locovaz. Nei giorni seguenti, sul Carso, avvennero aspre lotte tra le truppe italiane della 57a e 58a Divisione e quelle austro-ungariche nei pressi della quote 464 (Monte Grandee 378 rispettivamente ad est e ad ovest del Fáiti, le cui trincee passarono di mano in mano più volte ed infine rimasero in mano austro-ungariche.
Più a sud, invece, il XXII Corpo italiano riuscì ad oltrepassare Versici, Corite e Sella, spingendosi nel Vallone di Brestovizza, occupando e refforzando la quota 50 (poco a sud della quota 58 di Moschenizza); il XIII Corpo italiano espugnò la piccola altura di quota 40 (sopra la galleria ferroviaria di San Giovanni) ed avanzò fin oltre la linea ferroviaria e le rovine di San Giovanni, catturando oltre un migliaio di prigionieri ed alcuni cannoni. Era tuttavia evidente che non si sarebbe ormai potuto, da parte italiana, conseguire un successo uniforme e decisivo su tutta la fronte. Perciò, il 23 agosto 1917, il Comando Supremo italiano decise di sospendere le azioni sul Carso.
Il 4 settembre gli austro-ungarici regirono con un violento controattacco contro tutta il fronte del XXIII e del XIII Corpo d'armata italiano: mentre le truppe del XXIII riuscirono a contrattaccare e ricacciare le truppe nemiche, quelle del XIII furono costrette ad abbandonare quasi tutto il terreno conquistato. Il 5 e i 6 settembre le truppe italiane si sospinsero fino alla linea della ferrovia ma ripiegarono poi nelle linee di partenza. Il giorno stesso che si sferrava sull'altopiano Carsico il contrattacco austriaco, la 2a Armata italiana, dopo un bombardamento molto intenso, per il quale erano state concentrate nel breve tratto tra il San Gabriele e il San Marco oltre 700 bocche da fuoco di medio e grosso calibro, iniziava l'attacco dell'arco di alture che cinge Gorizia.
L'11a Divisione del VI Corpo dava quindi la scalata alle pendici del San Gabriele, riuscendo a raggiungere la linea di cresta tra la quota 552 e quota 646 (Monte San Gabriele) e catturando circa 200 prigionieri. Poco più tardi però, un contrattacco austro-ungarico obbligò gli italiani a ritirarsi a un centinaio di metri al di sotto della vetta. Nei giorni seguenti, fino al 10 settembre 1917, il San Gabriele fu teatro di una lotta incessante e sanguinosa; come in una voragine ardente, interi reggimenti vi furono consumati da una parte e dall'altra. Il Comando della 2a Armata pensò di poter vincere la resistenza dei difensori del San Gabriele isolandoli con un nutrito bombardamento senza tregua del territorio circostante, dal quale però dovette desistere dopo quale giorno sia per l'enorme consumo di munizioni sia per i poderosi lavori di caverne e gallerie eseguiti dagli austro-ungarici che gli permettevano di resistere senza molte difficoltà. All'alba dell'11 settembre 1917, poi, tutte le attigue posizioni italiane della Sella di Dol a Santa Caterina vennero violentemente bombardate dagli avversari. Gli italiani, con diversi scaglioni di fanteria, attaccarono il vicino Col Grande e il San Gabriele, e dopo un primo indietreggiamento, riuscirono a ristabilire la situazione. Il giorno seguente il contrattacco austro-ungarico si estese anche al San Gabriele.
Sull'altopiano della Bainsizza, intanto, erano continuate le azioni locali, per migliorare e consolidare le posizioni italiane sulle linee avanzate, azioni che culminarono, il 15 settembre 1917, in un attacco della Brigata Sassari che condusse, il giorno 29 settembre alla conquista di quota 816 (Gomila), a sud-est di Madoni, un importante caposaldo il cui possesso permetteva il dominio di tutta la parte superiore del Vallone di Chiapovano. Tale conquista (poi risultata come il punto più orientale dell'avanzata italiana prima della ritirata al Piave) fu dovuta alle truppe italiane della 44a Divisione guidate dal gen. Achille Papa (che qui cadde il 5 ottobre 1917 e a cui in seguito venne dedicata l'altura, Quota Papaappunto) che permise la cattura di 2460 prigionieri tra cui 54 ufficiali; all'azione vi prese parte che la Brigata Venezia attraverso il 83o ed 84ofanteria.
La più vasta ed importante battaglia sin allora combattuta da parte italiana si concluse con un bilancio che in maniera decisa aveva portato gli austro ungarici vicino ad una crisi. Sarà questa grave situazione che convincerà gli alleati tedeschi a concentrare i propri sforzi sul fronte italiano (dopo essersi liberati del fronte russo) e organizzare l'offensiva di Caporetto.
L'«episodio» dell'Ortigara, costato due mesi prima la perdita, tra morti e feriti, di 24.000 italiani e 12.000 austriaci, aveva portato il solo risultato concreto di rassicurare il comando italiano che nel settore trentino non esistevano pericoli immediati di attacchi austriaci.
Il generale Cadorna poté così dedicarsi all'organizzazione di una nuova battaglia sull'Isonzo, l'undicesima della serie. Fece convergere sul fronte isontino il più grande numero di uomini e materiali che fosse mai stato visto prima: 51 divisioni con 5.200 pezzi di artiglieria.
Il piano studiato da Cadorna prevedeva una duplice azione attorno al fiume Vipacco. A nord le truppe italiane si sarebbero dovute muovere dall'altipiano della Bainsizza per raggiungere quello di Tarnova. Più a sud, sul Carso, si sarebbero dovute portare sull'altipiano di Comen e conquistare il monte Hermada. In questa maniera avrebbero accerchiato le postazioni austriache attorno a Gorizia.
Ma il generale Capello, comandante della Seconda Armata collocata a nord dello schieramento italiano, suggerì alcune modifiche. Secondo Capello era meglio estendere più a nord il campo d'azione, in direzione della testa di ponte di Tolmino. Non era una modifica da poco, perché - pur mantenendo lo stesso numero di uomini e mezzi - invece di due operazioni se ne attivavano tre: Tolmino, Bainsizza e Carso. E iniziò proprio a nord l'offensiva destinata al primo fallimento. Dopo i primi successi e la cattura di 600 prigionieri, l'offensiva infatti si bloccò a Tolmino. Poco dopo anche sul Carso l'iniziativa italiana fu presto bloccata.
Gli storici rimproverano a Capello di non aver fatto convergere le sue truppe verso il centro, cioè verso l'altipiano della Bainsizza che era l'obbiettivo originale e primario dell'intero disegno strategico di Cadorna, dove le truppe guidate dal Generale Caviglia avevano invece registrato l'unico vero successo dell'operazione. Per qualche sua stana convinzione, Capello invece continuò la spinta (inutile) verso Tolmino.
Dal canto suo Caviglia, con notevoli sforzi, poté allargare il cuneo sulla Bainsizza. Ma, trovandosi sguarnito sulle ali destra e sinistra, la sua posizione venne bloccata in una sacca.
Se a nord ci eravamo andati a impelagare a Tolmino, anche a sud avevamo l'«indomabile bestia» dell'Hermada. Friz Weber la definì così nel suo famosissimo libro «Tappe della disfatta», perché da lungo tempo era divenuta una fortezza gigantesca. L'«indomabile bestia», doveva resistere a qualunque costo, perché rappresentava la chiave di volta dell'intero dispositivo di difesa austriaco. Su mille metri di linea si trovavano trenta chilometri di trincee, camminamenti, ripari, osservatori blindati, dozzine di caverne, nidi di mitragliatrici e migliaia di artiglierie. Battuta da tre lati, specialmente da punta Sdobba (una lingua di terra intersecata da canali, dove su pontoni e su piazzole di cemento erano postate settanta batterie di grosso e medio calibro, difficili da colpire), l'Hermada resistette agli assalti delle fanterie italiane che muovevano attacco dalle loro linee.
La Bainsizza, dicevamo, è un altipiano che scende con fianchi ripidi sull'Isonzo da una parte e sul solco del fiume Idria dall'altra, portandosi così a ridosso della piana di Gorizia. L'operazione prevedeva come primo scalino la conquista del Kuk-Vodice, da dove si doveva dare l'assalto al bastione principale e superarlo, per poi scendere nella conca di Vrh per salire poi sulla parte settentrionale della Bainsizza.
L'avanzata è stata profonda, 12 chilometri, e il nemico è stato messo in rotta. Nella notte sul 24, però, si sottrasse alla nostra stretta e i nostri soldati si trovarono indecisi, impreparati come tutti gli eserciti di allora a reagire di fronte a un vuoto lasciato dal nemico in fuga. E questo bastò a dare al nemico il tempo di imbastire una nuova linea, sulla quale la spinta dei nostri alla fine si infranse. I rincalzi e l'artiglieria nessuno seppe organizzarli per tempo. Pur avendo fatto questa strepitosa avanzata, che ci portava al vallone di Chiapovano, ci si arrestò per insufficienza logistica.
In questa fase, mirabile fu l'opera dei genieri che gettarono ponti e passerelle sull'Isonzo, battuti dal tiro delle batterie e delle mitragliatrici austeriache; splendido l'ardimento dei fanti e degli alpini che forzarono il passaggio del fiume, ridotti a servirsi anche di un solo ponte, quello di Dopplar e di una stretta passerella. Da questi ponti, la sera del 19 agosto, passarono alla sinistra dell'Isonzo la brigata «Ferrara» e due battaglioni alpini, il «Pelmo» e l' «Albergian». Ma la situazione non era così disperata per gli Austriaci, perché stavano arrivando riserve provenienti dal fronte russo, disimpegnato dalla firma dell'armistizio. Capello questo non lo sapeva e, esaltato più del necessario dal successo, ordinò addirittura alla cavalleria di lanciarsi all' inseguimento del nemico «in rotta». Ma i versanti che dalla sinistra dominano la conca di Tolmino, non erano stati conquistati e la sera del 25 agosto ogni attacco venne respinto.
In sintesi, quanto accadde alla Seconda Armata di Capello era la ripetizione di quanto già accaduto all'austriaco Conrad nel corso della Strafexpedition: lo sfondamento non era stato seguito dalla elefantesca macchina di un esercito di trincea.
Il 26 agosto il Comando Supremo dovette dare l'ordine di sospendere momentaneamente le operazioni. Ordine che divenne definitivo il 29, quando risultò impossibile spostare la Terza Armata, soprattutto per difetto di munizioni… Il consumo era stato superiore ad ogni previsione. Dal 18 agosto ai primi di settembre (quando si cessò di combattere anche sul Monte Santo) gli austriaci avevano sparato 1.500.000 di colpi di piccolo calibro, 250.000 di medio calibro, 22.000 di mortai e uguale era stato il consumo da parte italiana.
Le perdite furono gravissime: gli austriaci denunciarono 10.000 morti, 45.000 feriti, 30.000 dispersi, 28.000 ammalati, oltre 150 pezzi d' artiglieria. Gli italiani lamentarono 40.000 morti, 108.000 feriti, 18.000 dispersi, ben più del doppio della inutile battaglia dell'Ortigara.
Ma stavolta almeno si poterono vantare notevoli vantaggi territoriali. Il dispositivo di difesa austriaco scricchiolava paurosamente. Tanto vero che il Comando in capo dovette confessare all'alleato tedesco di non ritenersi più in grado di sostenere una nuova battaglia difensiva.
La Germania avvertì la minaccia e decise di intervenire massicciamente. La vittoria della Bainsizza doveva costarci di lì a poco, la sconfitta inattesa di Caporetto.
http://www.lalumiera.it/Superchi%20Augusto%20un%20esempio%20da%20tramandare/BAINSIZZA.htm
https://it.m.wikipedia.org/wiki/Undicesima_battaglia_dell%27Isonzo
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