Edgar Allan Poe - Colloquio di Monos e Una

Queste cose sono in futuro vicino.
Sofocle, Antigone

UNA «Nato di nuovo?».
MONOS Sì, mia bellissima, mia adorata Una, «nato di nuovo». Tali erano le parole sul cui mistico significato avevo tanto a lungo meditato, rifiutando le spiegazioni dei sacerdoti, sinché alla. fine la Morte stessa non mi rivelò il segreto.
UNA La Morte!
MONOS In che modo strano, mia dolce Una, fai eco alle mie parole! Osservo, anche, un vacillare nel tuo passo, una gioiosa irrequietezza nei tuoi occhi. Sei confusa, sopraffatta dalla maestosa novità della Vita Eterna. Sì, è della Morte che ho parlato. E qui, in quale modo singolare suona la parola che nei tempi andati soleva recar terrore a tutti i cuori e macchiare di nera ruggine la messe d'ogni nostro piacere!
UNA Ah, la Morte, spettro assiso a ogni nostro banchetto Quanto spesso, Monos, ci smarrimmo in speculazioni sulla sua natura! In quale modo misterioso imponeva un freno all'umana letizia - intimandole: «fin qui e non oltre!». E quel fervido, reciproco amore, o mio Monos, che ci ardeva in seno quanto vanamente ci lusingammo, sentendoci felici al suo nascere, che la sua forza avrebbe rafforzato la nostra felicità! Ahimè! via via che cresceva, cresceva nei nostri cuori il terrore di quella mala ora che incalzava a separarci per sempre! In questo modo, col tempo, amare divenne dolore. L'odio sarebbe stato misericordia, allora.
MONOS Non parlare, qui, di quelle pene, mia diletta Una, ora mia per sempre!
UNA Ma la memoria del dolore passato - non è forse nostra gioia presente? Molto ho da dire ancora delle cose che sono state. Soprattutto, ardo dal desiderio di conoscere gli eventi del tuo viaggio attraverso la Valle oscura e l'Ombra.
MONOS E quando mai la radiosa Una interrogò invano il suo Monos? Ti dirò tutto, minutamente - ma in qual punto comincerà la storia arcana?
UNA In qual punto?
MONOS Tu l'hai detto.
UNA Ti intendo, Monos. Nella Morte entrambi abbiamo appreso la vocazione dell'uomo a definire l'indefinibile. Non dirò pertanto: inizia dal momento in cui la vita venne a cessare. No, inizia da quel triste, tristissimo istante in cui la febbre ti abbandonò, e tu sprofondasti in un torpore senza respiro, senza moto, ed io ti chiusi le palpebre pallide con le dita appassionate dell'amore.
MONOS Prima, o mia Una, lascia ch'io parli brevemente della condizione generale dell'uomo a quel tempo. Rammenterai che uno o due dei saggi fra i nostri progenitori - saggi veramente, anche se non tali nella stima del mondo - avevano osato mettere in dubbio la legittimità del termine «miglioramento», applicato al corso della nostra civiltà. Vi furono momenti, in ciascuno dei cinque o sei secoli che precedettero immediatamente la nostra dissoluzione, in cui sorsero intelletti vigorosi, che audacemente si batterono per quei principi la cui verità alla nostra ragione riscattata appare ora del tutto ovvia; princìpi che avrebbero dovuto apprendere alla nostra razza a sottomettersi alla guida delle leggi naturali, anziché tentarne il controllo. A lunghi intervalli apparivano menti sovrane che guardavano a ogni avanzamento nelle scienze come a un regresso in quella che era la loro vera utilità. Talora lo spirito poetico - quello spirito che, ora lo sappiamo, è da sempre fra tutti sublime - giacché le verità che avevano per noi più duratura importanza potevano essere conseguite solo mediante l'analogia che con voce inconfutabile parla alla sola immaginazione e per la nuda ragione non ha peso alcuno - talora, dicevo, questo spirito poetico sopravanzava il pensiero filosofico nel suo incerto procedere, e nella mistica parabola che narra dell'albero della conoscenza e del suo frutto proibito, apportatore di morte, scopriva, chiaro monito, che la conoscenza non si addiceva all'uomo, nella infantile condizione della sua anima. E questi uomini, i poeti, che vivono e periscono fra il dispregio degli «utilitaristi», rozzi pedanti, i quali si arrogano un titolo che propriamente spetterebbe solo ai dispregiati - questi uomini, i poeti, meditano con rimpianto ma non senza saggezza su quei giorni antichi in cui i nostri bisogni erano semplici quanto intensi i nostri diletti - giorni in cui la parola gaudio era sconosciuta, tanto solenne e profonda era la musica della felicità - giorni sacri, augusti e beati, quando azzurri fiumi scorrevano liberi dagli argini tra colline intatte, inoltrandosi nelle remote solitudini di foreste primeve, fragranti e inesplorate.
E tuttavia queste nobili eccezioni al malcostume generale non servirono, ad esso opponendosi, che a rafforzarlo. Ahimè! eravamo caduti nel più gramo dei nostri grami giorni. Il grande «movimento» - perché così era chiamato nel gergo d'allora - proseguiva: morbosa perturbazione dell'anima e del corpo. L'Arte, gli artefici, ascesero supremi e, una volta insediatisi sul trono, gettarono in catene l'intelletto che li aveva elevati al potere. L'uomo, non potendo non riconoscere la maestà della natura, s'abbandonò a puerile esultanza per l'acquisito e sempre crescente dominio sugli elementi. Proprio mentre incedeva, un Dio nella sua propria immaginazione, lo colse un'infantile fiacchezza di mente. Come l'origine del suo male ben lasciava supporre, fu preso dal contagio di sistemi e astrazioni. Si impelagò nelle generalizzazioni. Fra altre idee stravaganti, guadagnò terreno quella dell'uguaglianza universale: e a dispetto dell'analogia e di Dio - contro il chiaro monito delle leggi della gradazione che tanto visibilmente pervadevano ogni cosa sulla Terra e nel Cielo - si fecero demenziali tentativi di instaurare una Democrazia totale. Eppure questo male non poteva non scaturire dal male primo: la Conoscenza. L'uomo non poteva conoscere e insieme sopravvivere. Sorsero frattanto enormi, fumiganti città, innumerevoli. Le foglie verdi avvizzirono al fiato delle fornaci. Il bel volto della Natura venne sfigurato come dalle devastazioni di un morbo ripugnante. E, mia dolce Una, io credo che forse il nostro senso, torpido di quanto è innaturale e forzato, poteva farci fermare qui. Ma è chiaro ormai che avevamo precipitato la nostra stessa distruzione pervertendo il nostro gusto, o piuttosto ciecamente trascurando di coltivarlo nelle scuole. Giacché, in verità, era in questa crisi che il gusto - la facoltà che, in quanto via media tra il puro intelletto e il senso morale, mai si può ignorare senza rischio - il gusto soltanto avrebbe potuto gradualmente riportarci alla Bellezza, alla Natura, alla Vita. Ahimè, puro spirito contemplativo e sublime intuizione di Platone! Ahi, quella mousikh, che egli, a ragione, considerava bastevole educazione dell'anima! L'uno e l'altra dimenticati o spregiati, proprio quando d'entrambi v'era più disperato bisogno!
Pascal, filosofo che tu ed io amiamo, ha detto, con quanta verità!, «que tout notre raisonnement se réduit à céder au sentiment»; e non è impossibile che il sentimento del naturale, se il tempo lo avesse consentito, avrebbe alla fine riconquistato il suo antico predominio sulla cruda ragione matematica delle scuole. Ma ciò non doveva essere. Precocemente sollecitata dagli eccessi della conoscenza, la vecchiaia del mondo s'appressava. La massa dell'umanità non se ne avvide o, vivendo una vita fatta di interessi voluttuari, eppure infelice, finse di non avvedersene. Quanto a me, la documentata storia della Terra mi aveva insegnato ad attendermi la più vasta rovina come prezzo della più alta civiltà. Avevo attinto il presentimento del nostro Fato paragonando la Cina, semplice e paziente, con l'Assiria degli architetti, l'Egitto degli astrologi, e la Nubia, d'essi più ingegnosa, turbolenta madre di tutti gli artefici. Nella storia di queste terre incontrai un raggio del Futuro. Le artificiose specializzazioni delle ultime tre nazioni erano malattie di quei particolari luoghi della Terra, e nella loro scomparsa avevamo veduto l'applicazione di rimedi puramente locali; ma per il mondo infetto, in ogni sua parte, non potevo vedere altra rigenerazione che la Morte. Perché l'uomo, in quanto razza, non si estinguesse, capivo che egli doveva «nascere di nuovo».
E fu allora, mia bellissima, mia carissima, che quotidianamente avvolgemmo i nostri spiriti nei sogni. Fu allora che, nel crepuscolo, discorremmo dei giorni a venire, quando la superficie della Terra, deturpata dall'artificio, dopo aver subito quella purificazione che sola poteva abolire le sue rettangolari oscenità, si sarebbe rivestita nuovamente di verzura e declivi montani e radiose acque di Paradiso, e sarebbe stata finalmente dimora adatta all'uomo: all'uomo mondato dalla morte - all'uomo per il cui intelletto ora sublimato la conoscenza non avrebbe più avuto veleni - all'uomo redento, rigenerato, beatificato e ormai immortale, ma pur sempre corporeo.
UNA Ben rammento, carissimo Monos, queste conversazioni; ma l'epoca della distruzione ad opera del fuoco non era così prossima come noi credevamo, e come la corruzione di cui parli ben ci autorizzava a credere. Gli Uomini vissero; e i singoli morivano. Anche tu ti ammalasti, e andasti alla tomba; e là prontamente ti seguì la tua fedele Una. E sebbene il secolo che da allora è trascorso e che, concludendosi, ancora una volta a questo modo ci congiunge, non abbia torturato d'impazienza per così lungo durare i nostri sensi assopiti, pure, mio Monos, fu sempre un secolo.
MONOS Di', piuttosto, un punto nel vago infinito. Indubbiamente, sono morto quando la terra era giunta allo stadio estremo della sua stolida vecchiezza. Il cuore esausto d'angoscia per lo sconvolgimento e il decadimento generale, soccombetti alla febbre divorante. Dopo alcuni giorni di sofferenza, e molti di sogni deliranti, di estasi incontenibili, le cui manifestazioni tu scambiavi per sofferenza, mentre anelavo a disingannarti, e tuttavia non ne avevo la forza - dopo alcuni giorni mi colse, come hai detto, un torpore senza respiro, senza moto; e coloro che mi stavano attorno lo chiamarono Morte.
Le parole sono cose vaghe. Il mio stato non mi privava della sensibilità. Non mi sembrava gran che dissimile dall'estrema quiete di chi, dopo aver dormito a lungo, profondamente, immoto, prostrato dal sole meridiano, lentamente, sazio ormai di sonno e senza esser destato da alcuna molestia esterna, riemerge alla coscienza.
Non respiravo più. Le pulsazioni erano cessate. Il cuore non batteva più. La volizione, sebbene non del tutto scomparsa, era incapace di estrinsecarsi. I sensi erano insolitamente acuti, ma in modo bizzarro, e spesso l'uno assumeva le funzioni dell'altro, a caso. Gusto e odorato erano inestricabilmente mescolati, erano divenuti un unico sentimento, anomalo e intenso. L'acqua di rose di cui la tua tenerezza fino all'ultimo mi inumidì le labbra, suscitò in me soavi fantasie di fiori: fiori fantastici, assai più belli d'ogni fiore della vecchia Terra, i cui modelli vediamo sbocciare qui intorno a noi. Le palpebre, trasparenti ed esangui, non impedivano completamente la vista. Poiché la volizione era come sospesa, gli occhi non potevano roteare nelle orbite, ma tutti gli oggetti situati entro l'ambito del campo visivo si potevano scorgere - quale più, quale meno - distintamente; i raggi che colpivano la retina periferica o la cornea producevano un effetto più vivido di quelli che ne colpivano la parte frontale o superficie anteriore. Eppure, nel primo caso, l'effetto era a tal punto anomalo che potevo sentirlo solo come suono: suono soave o discorde a seconda che gli oggetti che mi si presentavano a lato fossero di colore chiaro o scuro, di contorni curvi o angolari. Nello stesso tempo l'udito, sebbene in qualche misura eccitato, non funzionava in modo irregolare: anzi, percepiva i suoni reali con strana precisione e sensibilità. Il tatto aveva subito una trasformazione più peculiare. Riceveva le impressioni con lentezza, ma le riteneva ostinatamente, producendo sempre il più alto piacere fisico. Così la pressione delle tue dolci dita sulle mie palpebre, dapprima riconosciuta solo grazie alla vista, alla fine, molto tempo dopo che dalle palpebre esse si erano staccate, colmò tutto quanto il mio essere di un incommensurabile diletto dei sensi. Ho detto diletto dei sensi. Tutte le mie percezioni erano puramente sensoriali. La materia che i sensi trasmettevano al cervello passivo non veniva in alcun modo elaborata, composta in forma dal mio morto intelletto. Poco il dolore, molto il piacere; mai, comunque, dolore o piacere dello spirito. Così, i tuoi singhiozzi sfrenati fluivano con tutte le loro meste cadenze alle mie orecchie che ne gustavano ogni melanconica modulazione; ma erano dolci musiche, e null'altro; alla ragione estinta nulla suggerivano della sofferenza che le generava; mentre le grosse lacrime che ininterrottamente mi cadevano sul volto e che ai presenti dicevano di un cuore infranto facevano vibrare ogni fibra del mio corpo d'estasi soltanto. E quella era in verità la Morte, di cui i presenti parlavano con reverenza, in sommessi bisbigli - e tu, una dolcissima, anelante, con alte grida.
Mi vestirono per la bara - tre o quattro figure buie che senza posa mi svolavano attorno. Quando attraversavano direttamente il mio campo visivo, mi si rivelavano come forme: ma quando passavano al mio fianco, le loro immagini evocavano in me l'idea di urla e gemiti e altre lugubri espressioni di terrore, di orrore, o di cordoglio. Tu sola, vestita della tua veste bianca, dovunque muovessi attorno a me, eri musica: sempre.
Smoriva il giorno; e, via via che la sua luce svaniva, si impadronì di me un senso di vago smarrimento - un'ansia, quale avverte il dormiente, quando i tristi orrori del reale ininterrottamente penetrano il suo orecchio: fiochi, remoti rintocchi di campane, solenni, a intervalli lunghi ma uguali, mescolati a sogni malinconici. Giunse la Notte; e, con le sue ombre, un greve sconforto. M'opprimeva le membra con l'oppressione di un peso sordo; era palpabile. E v'era un suono lamentoso, come eco lontana di flutti, eppure più continuo e che, iniziando col primo crepuscolo, col buio si era fatto più forte. Lumi vennero portati nella stanza, improvvisamente, e subito quell'eco si interruppe in scoppi frequenti, ineguali, dello stesso suono, ma meno tetro e meno nitido. S'alleviò in gran misura il senso di ponderosa oppressione; e, scaturendo dalla fiamma di ciascuna lampada (poiché molte ve n'erano) fluì al mio orecchio, dolcissima, ininterrotta, l'onda di una monodia. E quando, mia diletta Una, accostandoti al letto su cui giacevo, soavemente sedesti al mio fianco, e premesti le tue labbra dolceodorose sulla mia fronte, tremante mi si levò in petto, mescolato alle sensazioni puramente fisiche suscitate dalle circostanze, qualcosa di affine al sentimento, qualcosa che in parte sentiva, in parte rispondeva al tuo profondo amore, al tuo dolore; ma tale sentimento non mise radici nel cuore inerte; e pareva invero più ombra che realtà e rapidamente si dissolse, dapprima in estrema quiete, e poi, come per l'innanzi, in mero piacere dei sensi.
E ora, dal naufragio e dal caos dei sensi consueti, parve che in me ne sorgesse un sesto, assolutamente perfetto. Nell'esercitarlo, provai un diletto strano, e pur sempre un piacere dei sensi, giacché in esso l'intelletto non aveva parte. Nella mia struttura animale era cessato ogni moto. Non un muscolo guizzava; non un nervo vibrava; non pulsava un'arteria. Ma dentro il cervello pareva fosse scaturito ciò di cui nessuna parola potrebbe dare una sia pur vaga idea a un intelletto meramente umano: la definirò una pendolare pulsazione mentale.
Era il concretizzarsi, dentro la mente, dell'idea astratta che l'uomo ha del Tempo. Sulla compensazione perfetta di quel movimento - o di altro ad esso simile - erano state regolate le orbite dei globi celesti. Grazie ad esso misurai le inesattezze della pendola sopra il caminetto e degli orologi degli assistenti. Il loro ticchettio mi giungeva sonoro alle orecchie. La menoma deviazione - e tali deviazioni erano continue - mi feriva così come, sulla terra, le violazioni di una verità astratta sogliono ferire il senso morale. Sebbene non uno degli orologi che erano nella stanza scandisse i secondi esattamente e insieme, non avevo difficoltà a tenere a mente i suoni e i rispettivi, minimi scarti di ciascuno. E questo - questo senso della durata, acuto, autonomo e perfetto - questo senso che esisteva (come l'uomo mai avrebbe potuto concepire) indipendentemente da ogni successione di eventi - questa idea - questo sesto senso che scaturiva dalle ceneri degli altri, fu il primo passo evidente, decisivo dell'anima atemporale sulla soglia della Eternità temporale.
Era mezzanotte, e tu sedevi ancora al mio fianco. Tutti gli altri avevano abbandonato la camera della morte. Mi avevano deposto nella bara. Tremule ardevano le lampade: me ne accorgevo dal vibrato che interrompeva il fluire uguale dei suoni. Ma improvvisamente i suoni diminuirono di nettezza e volume. Infine cessarono. Svanì nelle mie narici il profumo. Le forme si dileguarono alla mia vista. L'oppressione della Tenebra si levò dal mio petto. Mi corse per tutto il corpo una scossa come di elettricità, sorda, opaca, seguita dalla perdita totale dell'idea di contatto. Tutto ciò che l'uomo definisce senso si dissolse nella sola consapevolezza dell'essere in quell'unico, permanente sentimento di durata. Il corpo mortale era stato alla fine colpito dalla mano del disfacimento di morte.
E tuttavia la sensibilità non era completamente scomparsa; una letargica intuizione permetteva alla coscienza e al sentimento residui di adempiere ancora ad alcune delle loro funzioni. Percepivo ora lo spaventevole mutamento che si andava operando nella mia carne, e, come colui che sogna è talora consapevole della presenza corporea di qualcuno che si china su di lui, così, dolce Una, sentivo, ancora sordamente, che tu sedevi al mio fianco. E così, quando venne il mezzodì del secondo giorno, non fui inconsapevole dei gesti che ti staccarono da me, che mi imprigionarono nella bara, che mi deposero nel feretro, che mi trasportarono alla tomba, che in essa mi calarono, che greve ammassarono la terra smossa sopra di me, e che così mi abbandonarono nel buio e nella putredine al mio triste e solenne sonno in compagnia del verme.
E lì, nel carcere che pochi segreti ha da svelare, trascorse l'onda dei giorni e delle settimane e dei mesi; e l'anima scrutava intenta ciascun secondo che s'involava, e senza sforzo registrava quel suo volo: senza sforzo e senza scopo.
Passò un anno. La consapevolezza di essere si era fatta d'ora in ora più indistinta e il suo posto era stato in gran parte usurpato da quella dello spazio. l'idea di entità si dissolveva in quella di luogo. Lo spazio angusto che circondava quel che era stato il corpo stava ora diventando il corpo stesso. Alla fine, come spesso accade a chi dorme (poiché il sonno soltanto, e il suo mondo, è immagine della Morte) - alla fine, come spesso accadeva sulla Terra a chi, immerso in un sonno profondo, trasaliva, a metà destandosi, al guizzare d'una luce, eppure restava a metà avvolto nei sogni, - così a me, stretto nell'abbraccio dell'Ombra, venne quella luce che sola avrebbe potuto scuotermi: la luce dell'Amore eterno. Uomini faticavano alla tomba in cui io giacevo, buio nel buio. Smossero la terra umida. Sulle mie ossa infradicite discese la bara di Una.
E di nuovo fu il vuoto. Quella luce nebulosa si era spenta. Quel tenue brivido aveva vibrato, si era placato. Molti lustri si susseguirono. La polvere era tornata alla polvere. Il verme non aveva più cibo. Ogni senso dell'essere era alfine completamente sparito, e in vece sua - in vece di tutte le cose - regnavano - assoluti, perpetui - gli autocrati Spazio e Tempo. Per ciò che non era - per ciò che non aveva forma - per ciò che non aveva pensiero - per ciò che non aveva sensibilità - per ciò che era senz'anima e di cui tuttavia la materia non era parte - per tutto questo niente, e tutta questa immortalità, la tomba era una casa, ancora e sempre, e le ore che tutto corrodono amiche e sodali.

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