Nel corso della Seconda Guerra Mondiale, l'Italia visse un periodo di grandi tensioni interne che si intrecciarono con gli eventi globali, trasformando il paese in uno dei principali teatri della Resistenza contro il nazifascismo. Mentre le forze alleate, dopo lo sbarco in Sicilia nel luglio del 1943, avanzavano in Italia, il paese viveva una situazione di caos politico e sociale, a seguito della caduta del regime fascista e della fine del governo Mussolini. Il 25 luglio 1943, con la destituzione di Mussolini e l’armistizio dell'8 settembre 1943, l’Italia si trovò divisa in due zone: quella occupata dai nazisti e quella sotto il controllo del governo fascista della Repubblica Sociale Italiana (RSI), che continuò a combattere al fianco della Germania. Questa divisione creò il terreno fertile per una lunga e sanguinosa guerra civile tra le forze antifasciste e i sostenitori del regime.
In questo scenario, la Resistenza si sviluppò come un movimento di lotta contro il fascismo, ma le sue motivazioni e gli obiettivi erano estremamente variegati. Tra le formazioni partigiane più rilevanti c'erano quelle comuniste, in particolare le Brigate Garibaldi, che cercarono di utilizzare la guerra di liberazione per consolidare il potere comunista in Italia. Tuttavia, questo obiettivo ideologico portò con sé non solo l’occupazione dei territori da parte di questi gruppi, ma anche l’eliminazione di chiunque fosse visto come un ostacolo al progetto socialista, tra cui i moderati, i cattolici e le forze politiche di sinistra non allineate.
Se da un lato la Resistenza rappresentò una reazione legittima contro l’oppressione fascista e nazista, dall’altro i metodi usati da alcune formazioni partigiane sollevano dubbi. La violenza non si limitò ai nazisti e ai fascisti, ma colpì anche innocenti, come sacerdoti, contadini e membri di movimenti di resistenza non comunisti. La logica di una "purga ideologica" diventa chiara in molti episodi, come quelli che coinvolsero la morte di don Ferdinando Merli e don Angelo Merlini, due preti della Diocesi di Foligno, uccisi nel febbraio del 1944. Questi due sacerdoti, pur impegnati contro il fascismo, furono considerati nemici ideologici dalla Brigata Garibaldi a causa della loro appartenenza alla Chiesa cattolica e della loro posizione moderata. La loro morte è solo uno degli episodi più noti di una serie di attacchi a figure cattoliche che non si piegavano al nuovo ordine che i comunisti cercavano di instaurare in Italia.
In parallelo, un altro episodio emblematico della violenza comunista contro chi non aderiva ai principi del partito è rappresentato dall’assassinio di Rolando Rivi, un giovane seminarista cattolico che nel 1945, a soli 14 anni, fu ucciso dai partigiani comunisti. Il suo crimine? Non allinearsi con il progetto socialista. La morte di Rivi è solo uno dei tanti omicidi perpetrati da formazioni partigiane di sinistra contro quelli che consideravano "nemici della rivoluzione", tra cui anche semplici persone che avevano il torto di essere cattolici o di appartenere a fazioni politiche moderate.
Rolando Rivi era un ragazzo di appena 14 anni, nato nel 1931 a San Valentino di Castellarano, in provincia di Reggio Emilia. Figlio di contadini cattolici, entrò in seminario minore a Marola, con l’intento di diventare sacerdote. Il suo abito talare lo indossava con orgoglio, anche quando era in vacanza a casa. Era il simbolo della sua vocazione, ma fu anche il motivo per cui venne ucciso.
Nell’aprile del 1945, a poche settimane dalla fine della guerra, Rivi fu rapito da un gruppo di partigiani comunisti della zona tra Piane di Monchio e San Valentino. Lo accusarono di essere una spia dei fascisti – l’accusa di comodo che i “giustizieri” rossi usavano per chiunque non fosse funzionale alla loro ideologia. Non c’era alcuna prova contro di lui. Non poteva esserci: era un ragazzo. Ma aveva l’abito da seminarista, e per molti in quel clima avvelenato bastava quello per sentenziare la condanna a morte.
Venne tenuto prigioniero per tre giorni, durante i quali fu picchiato, umiliato, sottoposto a minacce e vessazioni. Gli fecero scavare la fossa. Poi lo portarono nel bosco e gli spararono due colpi alle tempie. Aveva quattordici anni. “Appartengo a Gesù”, aveva detto. E per questo è stato ucciso. Il suo corpo fu ritrovato il 13 aprile 1945. Solo anni dopo, due partigiani comunisti furono processati e condannati, ma la loro pena fu poi ridotta drasticamente. Nel 2013, Rolando Rivi è stato proclamato beato da Papa Francesco.
Il suo caso non è un’eccezione. È un simbolo. Un simbolo tragico della violenza ideologica, della degenerazione del movimento partigiano in alcune sue frange, in particolare quelle più radicali e comuniste, per cui ogni sacerdote era potenzialmente un nemico di classe, un ostacolo al futuro “sol dell’avvenire”. Il caso di Rivi ci racconta che non tutti i partigiani combattevano per la libertà: alcuni combattevano per sostituire un regime con un altro, altrettanto autoritario, basato sull’odio di classe e sull’eliminazione dell’avversario.
Quello che colpisce di più nel martirio di Rivi non è solo l’età, ma il contesto: era aprile 1945. La guerra era praticamente finita. L’epurazione era già cominciata. Gli omicidi a sfondo ideologico diventavano sempre più frequenti. E i seminaristi, i preti, i cattolici impegnati diventavano bersagli. In Emilia – in particolare nelle province di Modena, Reggio Emilia, Parma, Bologna – si contano centinaia di omicidi di preti, religiosi, seminaristi, suore. La scusa era sempre la stessa: collaborazionismo con i fascisti. La verità era ben diversa: il PCI locale, ben radicato, vedeva nella Chiesa l’unico ostacolo reale all’egemonia futura.
La “giustizia partigiana” in quelle zone non guardava in faccia a nessuno. Non c’era bisogno di tribunali o prove. Bastava una delazione, una voce, o più semplicemente una scelta di vita incompatibile con l’ideologia comunista.
A livello nazionale, il martirio di Rivi va letto insieme ad altri eventi coevi: mentre l’Armata Rossa sfondava a est, e gli angloamericani avanzavano da sud, in Italia si giocava una partita tutta interna. Il PCI di Togliatti, appena rientrato da Mosca, dava ordine ai GAP (Gruppi di Azione Patriottica) e alle Brigate Garibaldi di prendere il controllo del territorio, e in prospettiva, del potere. Non era solo una guerra contro il nazifascismo, ma una guerra per il potere post-bellico.
Ecco perché i mesi tra l’autunno del 1944 e l’estate del 1945 sono cruciali. Non è più solo una Resistenza contro il nemico tedesco: è la resa dei conti interna, la "seconda guerra civile". L’eliminazione dei nemici politici non si ferma con la liberazione di Milano il 25 aprile. Anzi, da quel momento in poi si scatena una violenza ancora più incontrollata.
Nel triangolo della morte emiliano (Reggio Emilia, Modena, Bologna), ma anche in zone umbre e marchigiane, come Foligno e Nocera Umbra, si consuma una repressione che ha il sapore della vendetta di classe. I fatti di Foligno, in particolare l’uccisione nel febbraio 1944 dei due sacerdoti don Ferdinando Merli e don Angelo Merlini, per mano della 4ª Brigata Garibaldi, ne sono un esempio. Gli esecutori? Un partigiano montenegrino legato ai comunisti locali. Il movente? Sempre lo stesso: i preti erano un ostacolo, simboli del vecchio ordine, potenzialmente “nemici del popolo”.
Tutto questo si consuma nell’ombra, con la complicità del silenzio o della paura. E dopo la guerra, le versioni ufficiali tendono a cancellare questi episodi, o a giustificarli. Per decenni, la memoria pubblica ha rimosso il martirio di Rolando Rivi. Troppo scomodo. Troppo imbarazzante. Come lo erano i gulag per i compagni francesi, o i carri armati a Budapest. Ma la verità, prima o poi, riaffiora. E fa male.
Gli eventi in Umbria, in particolare nella zona di Foligno e Nocera Umbra, sono significativi per comprendere il clima di violenza e divisione che permeava la Resistenza. La 4ª Brigata Garibaldi, in queste zone, non si limitava a combattere il nazifascismo, ma intraprese una vera e propria guerra contro chiunque si opponesse alla sua visione ideologica. Tra febbraio e aprile 1944, gli scontri tra i partigiani comunisti e i gruppi di resistenza non allineati, inclusi i cattolici e i membri di altre formazioni politiche, si intensificarono. Le Brigate Garibaldi, pur essendo tra le più attive nella lotta contro i nazisti, si dimostrarono altrettanto inflessibili nel trattare con chiunque fosse ritenuto un avversario politico o ideologico, ricorrendo alla violenza e alla persecuzione per eliminare il dissenso.
A livello nazionale, il 25 aprile 1945 segna la data della liberazione dell'Italia dal giogo nazifascista, ma anche un altro momento cruciale nella guerra civile tra i partigiani rossi e le altre formazioni di Resistenza. Con la fine della guerra, e la conseguente disfatta della Germania, il PCI, e in particolare le Brigate Garibaldi, si trovano in una posizione di grande forza. Ma, come accennato, non è solo la lotta contro i nazisti a caratterizzare questa Resistenza, bensì anche il tentativo di costruire una nuova Italia socialista, un progetto che portò a continui conflitti con i partigiani non comunisti, cattolici e altre formazioni politiche, costringendo il paese a una difficile riconciliazione, che non avverrà mai davvero.
Inoltre, i crimini commessi durante questo periodo, purtroppo, non sono circoscritti a poche zone del paese, ma si estendono a diverse regioni, specialmente nell’Italia centrale e settentrionale, dove la Resistenza era particolarmente forte. Non a caso, il periodo che va dal 1943 al 1945 è segnato da numerosi episodi di violenza partigiana, che portarono alla morte di migliaia di innocenti. I partigiani comunisti, per quanto avessero ragioni politiche nel contrastare l’occupazione tedesca e il fascismo, usarono metodi che, in molti casi, non solo non risparmiavano i civili, ma li vedevano come bersagli legittimi da eliminare per ragioni ideologiche.
In questo contesto, l’Italia visse una vera e propria guerra civile mascherata da lotta di liberazione, dove le alleanze tra gruppi antifascisti si frantumarono sotto il peso delle divergenze ideologiche. La lotta contro il fascismo, quindi, non fu solo una battaglia contro un regime oppressivo, ma si trasformò in una lotta per il controllo politico del futuro della nazione. La Resistenza, pur avendo in sé atti di eroismo e sacrificio, non può essere ridotta a una narrazione uniforme e idealizzata; deve essere vista nella sua complessità, con il riconoscimento delle ombre che, purtroppo, accompagnarono questo periodo storico.
Il 25 aprile, la data della liberazione, è divenuto simbolo di una vittoria contro l'oppressione nazifascista, ma, come spesso accade con i momenti di transizione storica, non è solo una data di celebrazione della vittoria contro il fascismo, ma anche una data che segna la fine di una guerra civile che ha lasciato cicatrici profonde nella società italiana. La memoria di questi fatti non può essere monolitica, ma deve essere riconosciuta nella sua ambiguità, con la consapevolezza che la Resistenza fu anche un campo di battaglia per l’affermazione di una ideologia, la quale, pur avendo combattuto il fascismo, ha praticato essa stessa la repressione e la violenza nei confronti di chi non condivideva la sua visione.
Il sacrificio dei partigiani, che per un ideale di libertà e giustizia hanno dato la vita, deve essere rispettato e onorato, ma allo stesso tempo, non possiamo ignorare le zone d’ombra che ne hanno contraddistinto il cammino, specialmente per quanto riguarda la violenza ideologica esercitata da alcuni gruppi della Resistenza, in nome della costruzione di una nuova Italia che non doveva tollerare alcuna forma di opposizione.
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