"Ero l'omino della Plasmon poi sono finito sottoterra"

Dalla fama della pubblicità tv al carcere egiziano, fino alla passione per le traversate: «In galera studiavo Mosé e Tutankamon»


«Levati le scarpe. Sali con attenzione. Tieni in braccio lo zaino. C'è un po' di mare ma fidati».

L'uomo Plasmon vive sul pattino come il barone di Rondò sugli alberi. Non scende quasi mai, se non per mangiare sgombro e pomodori. Il fascio di muscoli più celebri di Carosello, l'uomo di schiena al teleschermo che tirava una martellata al capitello dei biscotti, è sopravvissuto a vent'anni di carcere in Egitto e ora fa il recordman: ha appena chiuso la Grande Traversata dell'Adriatico in pattino, novanta miglia a remi. Da quando è tornato a Giulianova dopo la prigione, Gabriellino va da là a qua, Sebenico-costa teramana, una volta all'anno, come se l'Adriatico fosse una piscina. L'ultima impresa è del 29 agosto. Tempo più basso fino a questo momento: sotto le 28 ore con vento contrario, di ponente. Ha vogato in coppia con l'amico Paolo Clementoni, e la dedica è stata per Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per ascoltare il suo lungo racconto bisogna issarsi di fronte a lui sul suo pattino di nome Riscatto: color giallo limone, fondo degli scafi indaco, remi tricolori, una scaletta a poppa «che non trovi nemmeno uno yacht da cinquecentomila euro». Così l'ex uomo Plasmon, Gabriellino, muscoli ancora tesi dopo cinquant'anni e occhi blu che hanno visto fama, mafia, inferno in terra e mare sterminato, ha portato in avanti l'asticella del suo limite proprio alla vigilia del suo settantunesimo compleanno, che scoccherà il 9 settembre.

Fioravante Palestini detto Gabriellino, perché viaggia dalla Croazia all'Italia su un pattino di nome Riscatto?

«Perché la mia vita è stata tutto un cadere e rialzarmi».

Si può dire anche sprofondare?

«Finii letteralmente sottoterra, nella prima cella del Cairo. Senza finestre, nell'oscurità. Sono stato in carcere vent'anni. In Egitto. Ma quando mi chiedono se rinnego quello che ho fatto rispondo che se non fai l'esperienza, gli errori non li puoi capire. L'importante non è quanto cadi, ma come ti rialzi».

Perché la dedica a Falcone e Borsellino?

«Non era passato nemmeno un anno da quando mi avevano arrestato al Cairo. E Falcone venne a interrogarmi... È la seconda volta che gli dedico la traversata. Anzi la terza, ma la prima fallii. Si alzò la bora. Due settimane dopo ci riprovai, sempre da solo, e chiusi a 29 ore. Gabriellino, mi dissi, sei proprio forte».

Però dobbiamo partire dall'inizio, dalla sua Giulianova. Come è successo che l'omino dei biscotti dei bambini degli anni '60 sia finito nel carcere Limanthora del Cairo?

Gabriellino dà un colpo di remo che ammazzerebbe una medusa carybdea e punta la prua canarina verso le reti dei pescatori. «L'anno della pubblicità era il 1964, avevo quasi diciotto anni. Il regista Sergio Tombolini era in vacanza a Giulianova. Disse a un mio amico che cercava un ragazzo con un bel fisico. Era il mese di agosto».

Ma questi muscoli se li è fatti davvero con i biscotti Plasmon?

«Ne ho mangiato uno in tutta la vita. E molti anni dopo».

A Natale non le arrivavano i pacchi?

«Mi pagarono un milione e centomila lire e mi proposero di andare a Roma. Ma io me ne salii in Germania».

Ma perché poi lei, un metro e novanta per centodieci chili, veniva chiamato Gabriellino?

«Per mio nonno, Gabriele. Mi chiamavano così quando ero piccolo e mi è rimasto da cresciuto».

E cosa ha mangiato a colazione per diventare l'uomo più forte della televisione?

«Quattro uova sbattute di mia madre prima di andare a pesca con mio padre tutte le mattina alle 4. Avevamo la barca a remi, vogavo tutti i giorni e nuotavo con qualsiasi mare, anche forza 4: così mi sono usciti i muscoli. Pesce, uova, pomodori. Quello che sto facendo adesso per la traversata. Per tornare alle origini bisogna tornare alle origini. Vedi laggiù? Stanno facendo la pesca della sciabica. Alcune riprese di Carosello me le fecero proprio mentre tiravo la rete. Ma lo sai che i filmati me li sto guardando adesso?».

Prima?

«Non ci pensavo, non mi rendevo conto».

E dopo la sciabica?

«Andai due volte a Milano, per la Mellin e la brillantina Linetti, facevo il gangster, c'era Cristina Fassi. Io non sapevo fare niente e mi prendevano per un grande attore».

E Roma, il cinema?

«Niente Roma. Appena arrivato in Germania feci il buttafuori in un night. Poi arrivai a gestire bische in tutta la Germania».

Che cosa le piaceva a quel tempo? I soldi?

«Sì ma ero molto generoso. Mi piaceva guadagnarli».

Figli?

«Una. La madre era di Mannheim. Non le piacque Giulianova e ci lasciammo. Mia figlia continuò a venire tutte le estati».

Finché lei non fu arrestato.

«Dopo la Germania, aprii un negozio di articoli da regalo, ero il primo a vendere gli Swarovski a Giulianova. E conobbi Gaspare Mutolo. Era in semilibertà a Teramo. Mi fece conoscere tante persone a Palermo. Poi lui fu arrestato. Io nel frattempo avevo accettato la proposta della Thailandia».

In cosa consisteva?

«Rilevare un carico di eroina e portarlo via mare oltre il Canale di Suez. Duecentocinquanta chili. Su un Cargo che si chiamava Alexandros».

Quando la arrestarono?

«Il 24 maggio dell'83. Mi ero presentato all'appuntamento in un isola dell'Oceano Indiano l'8 maggio. C'erano due barche: una dei pirati, pirati veri, l'altra trasportava la droga. Potevo tornarmene in aereo, ma preferii stare sulla nave per assicurarmi che tutto andasse bene».

E nel Canale di Suez che cosa accadde?

«Ci accerchiarono con lance, elicotteri e navi. Mi ritirai in cabina e lasciai le armi. Dopo un paio di minuti mi trovai due Magnum puntate alle tempie. Erano agenti dell'Interpol Greca e l'Fbi americana».

Che cosa significa che la prima cella era sottoterra?

«A Liman Tora. C'era solo uno foro alla porta. Per un anno e mezzo al buio per terra. Potevo uscire solo cinque minuti per il bagno. Mi trovavo nel braccio degli omicidi del presidente Sadat. Dimagrii trenta chili».

A cosa pensava in quei due metri quadrati al buio?

«A niente».

Non è possibile.

«La prima cosa che mi dissi fu: Gabriellino, vuoi tornare a Giulianova? Sì. Allora dimenticati tutto ciò che è fuori, e cerca di vivere qui per tornare sano e forte. Non mi sono mai lamentato e sono andato avanti».

E Falcone?

«Venne al Cairo con Ajala, undici mesi dopo il mio arresto. Voleva sapere, ma io non dissi nulla, e mi sorprese che se ne andò così come era venuto, gentile, anche se aveva fatto un viaggio a vuoto. Ajala invece si indispettì un po'. Ora invece siamo amici».

Falcone che cosa le disse?

«Una frase che non mi sono scordato per tutta la vita: Gabriellino, è vero che sei arrivato al massimo delle cose, ma tu sei fatto di un'altra pasta».

Lei come reagì?

«Iniziai a fare flessioni in quella stanza piccolina al buio. Mi rifeci un po' di muscoli».

E dopo il primo anno e mezzo?

«Mi spostarono in una cella più grande, mi concessero l'ora d'aria e iniziai a correre. Prima ero solo. Poi mi vennero dietro in quaranta, cinquanta, sessanta, tutto il carcere dietro di me».

Com'era il rapporto con i compagni di cella?

«Avevo amici. In tre metri e mezzo per sette e mezzo stavamo in sessanta settanta stesi».

Non ha mai visto un materasso?

«Mai. Mi dicevo che in quel modo mi sarei rinforzato la schiena. Siccome ero grosso, avevo il posto migliore, all'angolo. Mi chiesero se volevo essere spostato in una cella di stranieri. Dissi di no. Stavo con gli egiziani. C'erano anche dei principi. Molti avevano ucciso per vendetta, che lì è punita solo con tre anni».

Falcone lo rivide più?

«No. Salutandomi mi disse che quello che avrebbe potuto fare per riportarmi in Italia, lo avrebbe fatto. Scrisse a mio padre. Dopo essere stato da me, andò in Brasile e interrogò Buscetta, che si pentì».

Iniziò a ricevere visite?

«Mia sorella. Quando mi vide si spaventò tantissimo. Poi mia madre e mia figlia. Aveva 16 anni. Il primo giorno mi girava lontana, il secondo mi abbracciò».

Perché non scattò mai l'estradizione?

«Gli egiziani volevano dei prigionieri in Italia. Ma sai che mi ero sognato tutto otto mesi prima? La nave, i mitra puntati».

Lei è credente?

«Sì, anche se non sono praticante. Ma al Cairo i libri di teologia mi hanno aiutato tanto. Me li portava Padre Lauro, un comboniano eccezionale. Mi sono studiato la storia di Mosè e di Israele. Sono diventato anche esperto di archeologia. So tutto di Tutankamon».

Sono stati vent'anni terribili.

«Non dico mai terribili, è stata un'esperienza, le cose dipendono sempre da come le prendi. Io le difficoltà le ho sempre vissute come delle sfide. Tanti mi volevano bene».

Per esempio?

«Con i generali era vietato parlare ma io diventai amico di molti. Uno di loro faceva allenatore di voga alla nazionale dell'esercito. Andava sempre ad Assiut e mi portava il karkadè».

Non c'è stato nemmeno un momento di sconforto?

«Dopo 8-9 anni presi un virus e dimagrii venti chili. Mi cadevano i capelli a ciocche. Un ufficiale mi disse: Palestini, Enta Kalas, Sei finito. Lì ebbi uno scatto. Rifiutai tutte le loro medicine e iniziai a bere Seven Up. Qualcuno mi disse che dovevo fare così. Dopo sei mesi mi rimisi i muscoli a posto».

Il momento più impressionante è l'attracco. Gabriellino tira il pattino a secco da solo, sollevandolo sulla banchina dall'acqua.

Ma quanto pesa?

«Vuoi provare? È dal 64 che pensavo a questi colori. Come lo yacht della principessa Margareth, Blu Leopard, l'avevo visto a Porto Cervo quando ero skipper della Buitoni».

E quando uscì di prigione?

«Mi accompagnò personalmente all'aeroporto del Cairo il console Federica Favi. Non ci credevo di essere libero finché l'aereo si mise in volo».

La prima notte in un letto?

«Non ricordo. Pensavo solo di mettermi a tirare diritto. Amico di tutti ma lontano da tutti».

Lavoro?

«Al porto, ho distribuito carburante. Da dicembre sto in pensione. Mi voglio concentrare sulle traversate».

Come l'hanno cambiata i vent'anni di carcere duro in Egitto?

«Ho pagato tutto quello che dovevo pagare».

Lo racconta?

«Ai bambini, sono testimonial di un'associazione fondata da un ex generale dei Nocs che mi invita nelle scuole. E sono presidente dell'associazione Uomini, donne ed eroi del mare. Ho in progetto di organizzare corsi di pattino per bambini e diversamente abili. Aspetta, voglio farti vedere dove sono nato. Ora non c'è più, ma era la casa di Marco Pannella. La fece costruire suo padre davanti al palazzo di un barone, per fargli un dispetto».

L'ha conosciuto?

«A Strasburgo, quarant'anni fa. Con un amico gli andammo incontro e fummo circondati dalla polizia. Pannella mi abbracciò».

Gabriellino parcheggia davanti casa e mamma Leonida lo affianca in bici. Novantadue anni.

Signora Leonida, complimenti per la pedalata e per il nome.

«Mi chiamarono per la leva. Pensavano che fossi un uomo. Dovetti andare a spiegare che sono una donna».

Gabriellino, pensa mai ai bivi? Cosa sarebbe stato se... Se fosse andato a Roma, o se avesse superato il Canale di Suez. Sarebbe diventato ricco, voleva questo?

«Ma io sono ricco. Sono ricco dentro. Magari non avrei attraversato l'Adriatico. Per allenarmi esco anche con il mare grosso, di notte. Ieri i motoscafi si fermavano laggiù, e invece io andavo avanti. Mi guardavano tutti dagli scogli del porto. Qualche volta mi fanno pure le riprese».

A cosa pensa in mezzo all'Adriatico?

«A niente».

Non è possibile.

«Penso solo che devo battere il record».

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