Kevin Schwantz

Kevin Schwantz 1993 JapanGP - foto di Rikita


Sabato 17 Luglio 1995, nella sala stampa del Mugello, si è potuto assistere ad un episodio quantomeno singolare: un ragazzo biondo, con la faccia da bambino, in lacrime davanti alle telecamere annunciava il suo ritiro dal mondo delle corse su due ruote.

E la maggior parte di quelli che erano presenti, duri professionisti di quel mondo, facevano fatica a trattenere le lacrime anche loro, commossi e consci del fatto che il Motomondiale stava perdendo un protagonista, che tanto aveva dato allo sport e che in cambio aveva ricavato solo tante fratture ed un agognato titolo mondiale, vinto però nello stesso momento in cui il suo più grande rivale ed amico aveva concluso la sua carriera su una sedia a rotelle.

Un episodio quasi senza precedenti, perché si è trattato di un pilota senza precedenti, almeno nell'era moderna.
Nessuno come lui ha saputo accattivarsi il pubblico per la sua spettacolarità senza polemiche, per la sua faccia sulla quale, se non campeggiava una smorfia di dolore per l'ennesimo infortunio, era difficile non vedere un sorriso.
E a questo punto è chiaro perché, a distanza di più di quattro anni da quel giorno, tanti cupolini delle moto di appassionati sfoggiano ancora con orgoglio il numero 34.

Se qualcuno non lo avesse ancora capito, stiamo parlando di Kevin Schwantz. Nato a Paige, in Texas, classe 1964, mostra subito un talento innato per le moto. Passione probabilmente ereditata dallo zio assieme al numero 34, che all'epoca gestisce una concessionaria Yamaha e lo assiste quando, giovanissimo come tutti quelli della sua generazione, muove i primi passi nel mondo delle corse fuoristrada.

Gareggia nel trial, nel dirt-track e raggiunge un discreto successo nel Supercross (arriva a lottare per la qualificazione nel campionato nazionale, notoriamente covo di piloti velocissimi), ma sono le gare su asfalto che lo renderanno quella celebrità che è diventato. E sono quelle in cui incontrerà quello che sarà il suo acerrimo rivale - ma allo stesso tempo amico - per tutta la sua carriera: Wayne Rainey.

Segue la trafila di tutti i piloti della sua generazione, arrivando presto alle Superbike, categoria estremamente importante negli USA, e diventando in breve la bandiera della Suzuki: con la GSXR corre tanti campionati, di cui vince le battaglie ma non le guerre. La sua inconsistenza, la sua sintesi di genio e sregolatezza lo rendono un pilota estremamente spettacolare e generoso, ma troppo incline all'errore per poter trionfare sulla distanza di un campionato.
Per lui non esisteva gara persa: anche quando a cinque giri dalla fine si trovava a dieci secondi dal leader Kevin provava sempre a raggiungerlo, qualche volta con successo, il più delle volte invece finendo disteso nelle vie di fuga.

Ma se il suo stile non gli ha permesso di conquistare campionati in casa, è quello che gli ha procurato un biglietto per l'Europa. All'epoca, nella prima metà degli anni '80, c'era una corsa molto importante, disputata nel Regno Unito, detta Transatlantic Trophy, in cui una squadra di piloti americani si confrontava con quella dei piloti del vecchio continente.
Proprio in questa gara Kevin si fece notare da nientepopodimeno che Barry Sheene: egli stesso pilota spericolato e generoso, quando vide guidare il texano, con il suo stile fatto di staccate al fulmicotone e traiettorie impossibile per tutti tranne che per lui, le uniche parole che gli uscirono di bocca furono "Oh, Madre di Dio..."

Barry godeva all'epoca di una certa fama di scopritore di talenti specialmente in seno alla Suzuki, casa di cui lui stesso era stato il simbolo meno di dieci anni prima, e non gli fu difficile convincere la più piccola delle case di Hamamatsu a dare una possibilità al giovane Kevin nel mondiale 500, in cui la RGB500, ormai obsoleta, arrancava.
Un ottimo inizio per un giovane: poca pressione e poca responsabilità, ma la grande possibilità di cominciare a conoscere gli ambienti, le piste e quel mostro di moto che è - o meglio, era in quegli anni - una 500 da gran premio.

Ed è così che il giovane e scanzonato texano arriva al mondiale, prima solo per qualche gara e dal 1987 in pianta stabile: alto più di un metro e novanta, è brutto e sgraziato da vedere, ma tremendamente efficace. La Suzuki, che da quell'anno si converte dal glorioso quattro in quadrato al V4 bialbero, non è ancora competitiva (soprattutto a causa del peso), ma Kevin si fa notare molto in fretta: anche se gli stili di guida "sporchi" con traiettorie strette e scodate in accelerazione sono i più diffusi in quel periodo, Schwantz porta tutti i concetti introdotti da Roberts e soprattutto da Spencer all'estremo limite.

Frenate ritardatissime (alla domanda "Come trovi i riferimenti per le tue staccate?", Kevin fra il serio e il faceto rispose "Aspetto che il panico cresca, quando la paura si tramuta in visioni celestiali inizio a staccare...", curve percorse con la sua RGV costantemente in derapata su una o entrambe le gomme (celebre la sua curva al tornantino di Le Mans qualche anno dopo, nel 1989, degna di un rallista su quattro ruote), e accelerazioni furibonde che iniziavano quando molti dei suoi colleghi ancora non si sognavano di toccare la manetta del gas.

La Suzuki-Pepsi numero 34 era avviata a diventare un simbolo per gli appassionati di tutto il mondo.

Il 1988 per Schwantz inizia con la sua prima vittoria: sul circuito di Suzuka, che lui ama in maniera particolare, umilia - grazie anche ad una RGV che è un po' dimagrita durante l'inverno - il campione in carica Gardner in casa della Honda, costringendolo persino ad una divagazione nella pista d'atterraggi odegli elicotteri adiacente al circuito nel disperato tentativo di tenere l'infernale passo imposto dal texano.
Ma il 1988 è stato un anno fantastico: uno scontro fra titani, Gardner contro Lawson, e tanti talenti emergenti che lottano per un posto al sole: Rainey, Magee e Schwantz. Così, fra cadute e qualche bella prestazione l'anno si chiude con all'attivo solo un'altra vittoria, al Nurburgring sul bagnato, e qualche osso rotto che gli fa saltare la fine del campionato, finito poi nel carniere di Lawson.

L'anno successivo esplode la Schwantz-mania. Le RGV250 stradali in colori Pepsi finiscono esaurite mesi prima delle consegne, e l'inizio non potrebbe essere più promettente.
Come l'anno precedente, sulla pista amica di Suzuka Kevin dà vita ad un duello al calor bianco con Rainey, in una delle più belle gare che la classe 500 ricordi. I due si sorpassano innumerevoli volte, firmano l'asfalto con righe nere ad ogni curva, impennate e scodate non si contano.

Alla fine, complice un errore del contagiri ufficiale, Rainey finisce secondo di un soffio e Kevin si esibisce in quella danza della vittoria nel giro di rallentamento, fatta di gesti di vittoria in piedi sulle pedane, che in tanti hanno imitato.

E l'anno continua con gli alti e bassi che lo caratterizzeranno quasi sempre: tante cadute, fra cui quella terrificante in Australia, gli impediscono di lottare per il titolo; titolo che comunque non sarebbe stato suo a causa delle tre rotture della sua Suzuki.

Ma sono tante anche le vittorie: quando resta in piedi, Schwantz è pressoché imbattibile. E anche se alla fine in classifica generale lo precedono nell'ordine Lawson, Rainey e Sarron, non c'è dubbio su quale pilota abbia conquistato il cuore dei tifosi, sostituendo un Mamola ormai demotivato e in calo di prestazioni.

Il 1990 inizia, oltre che con il cambio di livrea grazie allo sponsor Lucky Strike transfuga dal team Roberts, con tante promesse di concretezza puntualmente deluse alla prima gara; il campionato si apre a Suzuka, ma la RGV non permette a Schwantz di tenere il passo di un Rainey imprendibile né quello di un apparentemente rinato Gardner: forzando una staccata più del dovuto finisce addirittura a terra alla chicane all'ultimo giro, salvando il posto sul podio solo grazie all'abissale vantaggio sul quarto.
E al fatto che Doohan avesse abbattuto Lawson qualche giro prima...

Piove sul bagnato -metaforicamente parlando- nella gara successiva, in cui Kevin, a Laguna Seca (gran premio di casa, che si corre a meno di un km. da casa di Rainey...), cade nuovamente per rincorrere una vittoria impossibile. E il campionato, pur risollevandosi in seguito con tante vittorie, è compromesso.

Schwantz ha le sue colpe, ma la RGV, in ogni caso, non è certo al livello di Honda e Yamaha, soprattutto sul piano della guidabilità; questo non impedisce a Kevin di estrarre dal suo cilindro magico i suoi numeri ad effetto, ma contro un Rainey che martella per tutto il campionato su ritmi spaventosi nulla può la magia del texano.

Durante l'inverno la notizia bomba: la Michelin si disimpegnerà ufficialmente dal mondiale, lasciando senza supporto i team che le si affideranno per gommare le proprie moto. Il team Roberts e quello Suzuki-Lucky Strike non ci pensano un attimo e ripiegano su Dunlop, rimettendosi in condizioni di parità, ma purtroppo per Schwantz, la squadra avversaria ha ben più esperienza sulle coperture anglo-giapponesi, che vantano per quell'anno un grip impressionante ma una durata limitata.
E in quest'anno, pur con il peso massimo portato a 130 kg, i record vengono sbriciolati: i tre pretendenti al titolo, Rainey, Schwantz e Doohan, si spartiscono le vittorie con gare entusiasmanti e numeri da cineteca, quali il sorpasso a ruote bloccate di Kevin su Wayne all'ingresso del Motodrom, ma per l'ennesima volta la storia non cambia.

Pur con la possibilità di scartare i due peggiori risultati, Schwantz resta troppo inconsistente per piegare un Rainey che, pur velocissimo, commette errori con il contagocce.

La stagione successiva è un vero disastro per Schwantz: schiacciato prima dalla NSR Big Bang di Doohan, quando quest'ultimo si frattura la gamba con le conseguenze che tutti sappiamo non riesce ad approfittarne, e lascia che sia Rainey a vincere e a mettere in carniere il mondiale 1992, che vede l'unica vittoria di Schwantz al Mugello. Ma nella stagione seguente la musica cambia: fin dai test invernali appare evidente che la Suzuki RGV non è più la moto inguidabile degli anni passati. I cronologici mostrano una regolarità impressionante nel girare su tempi record, e Schwantz appare più rilassato degli anni passati.

Forse la consapevolezza di avere finalmente in mano una moto vincente, che non lo costringa a rischiare la pelle in tutte le curve per tenere il passo di Honda e Yamaha, lo ha reso più tranquillo e sicuro di sé e delle sue possibilità.
E infatti, fin dall'inizio del Mondiale, Kevin si dimostra profondamente cambiato, regolare nei risultati (sempre sul podio fino a Donington) e poco incline a perdere la testa anche quando la concorrenza viene dal suo stesso team, nella persona di Alexandre Barros, il suo nuovo compagno di squadra che, ad ulteriore testimonianza della validità della RGV '93, mostra una competitività mai vista prima.

Ma mentre l'incredibile velocità del brasiliano, che sembra la conferma delle sue tante promesse, spesso gli fa finire le gare a gambe all'aria, Kevin è concreto come non mai: vince quando può farlo senza rischiare, si accontenta quando la vittoria è fuori portata.
Il suo stile ha perso molta della spettacolarità che l'ha reso celebre ed apprezzato, ma il sacrificio è accettato di buon grado da tutti i tifosi che sperano in un titolo mondiale.
Ma il disastro è alle porte: in Inghilterra, a Donington, una staccata suicida di Doohan - con la complicità di un'altrettanto inaspettata staccata anticipata di Barros per lasciar passare il caposquadra - causa una spaventosa carambola: Doohan e il team Suzuki al completo finiscono a terra, con Schwantz che si ribalta in avanti attaccato alla moto e picchia duro, fratturandosi per l'ennesima volta e lasciando che il team Roberts faccia doppietta, con Cadalora vittorioso e Rainey secondo che recupera tutto il suo svantaggio da Schwantz.
La frattura di Kevin viene tenuta nascosta a tutti, nel tentativo di non rafforzare psicologicamente un avversario già carichissimo, ma è evidente che lo Schwantz della gara successiva, in Cecoslovacchia, non è in piena forma.
Poi, l'inaspettato. GP di San Marino a Misano Adriatico: Rainey è in testa, Schwantz insegue ancora in difficoltà.
Per resistere agli attacchi del compagno di squadra Cadalora, Rainey forza troppo l'ingresso della Misano-2 e cade con quella che pare una banale scivolata, perdendo così gran parte del suo vantaggio.
In serata si viene a sapere la tragica verità: la frattura della sesta vertebra cervicale ha causato una paralisi agli arti inferiori di Rainey. Carriera finita e mondiale a Schwantz, che però - come è facilmente comprensibile - non riesce a gioirne.
La sorte gli aveva giocato un gran brutto scherzo: per Kevin il titolo mondiale significava essere il numero uno, ma soprattutto esserlo davanti a Rainey, l'eterno rivale. Cosa che non si sarebbe mai verificata: l'incidente di Wayne ha privato Schwantz della grande soddisfazione alla quale anelava nella caccia al titolo mondiale.
Ma, un po' per dovere verso lo sponsor e la Suzuki, un po' perché Kevin amava ancora andare in moto, dopo i festeggiamenti e i giri pubblicitari riprendono i test invernali. Test che confermano la Suzuki al livello delle avversarie, e tutti si aspettano un altro campionato con Schwantz protagonista, quando la brutta notizia fa rapidamente il giro del mondo: alla vigilia del campionato Kevin cade dalla Mountan bike durante un giro con gli amici e si frattura per l'ennesima volta il polso.
Il campionato comincia male e si trascina alla fine con il texano che spunta prestazioni mediocri e un'unica vittoria a Donington, ottenuta a dispetto di un polso nuovamente fratturato. Ma è evidente che Kevin non è più lui, che la grinta e la velocità di una volta si sono appannate; appare rinunciatario, gli manca la carica che lo ha sempre spinto verso la vittoria. Gli manca il suo grande avversario Wayne, probabilmente.
L'anno seguente l'antifona non cambia, e dopo una serie di cadute, a Suzuka, pista che lo ha sempre visto fortissimo e che in questa edizione lo vede invece surclassato dal compagno di squadra Beattie, annuncia una pausa per rimettersi in forma.
Ma quasi tutti hanno capito di cosa si tratta, e l'annuncio del Mugello era in realtà nell'aria da tempo. La frase che meglio di tutte sintetizzò come si sentiva Schwantz in quel periodo fu pronunciata da lui stesso: "Un tempo mi sentivo alto tre metri e a prova di proiettile. Adesso mi sento solo alto tre metri."
Quel giorno un mito è finito ed è nata una leggenda: la Dorna ritirò il numero 34 dalla classe 500 in suo onore - cosa mai verificatasi prima - e il Motomondiale non è più stato lo stesso.
Nei tempi che sono seguiti, nessuno è più stato più veloce e spettacolare di lui. Nessuno ha più saputo riproporre quella magia che tutti quelli che hanno vissuto quel periodo associano al numero 34 e ai colori del suo casco.

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