Edgar Allan Poe - Il sistema del Dottor Catrame e del Professor Piuma

Nell'autunno del 18..., mentre percorrevo a cavallo le estreme province meridionali della Francia, venni a trovarmi a poche miglia da una certa Maison de Santé, o manicomio privato, di cui mi avevano molto parlato, a Parigi, i miei amici medici. Non avendo mai visitato un luogo del genere, decisi di non perdere una così buona occasione, e pertanto proposi al mio compagno di viaggio (un gentiluomo che avevo conosciuto alcuni giorni prima) di fare una breve deviazione - un'ora o poco più - per dare un'occhiata all'istituto. La proposta non lo entusiasmò: addusse, in primo luogo, il motivo della fretta e, in secondo luogo, l'orrore, del resto assai comune, che suscitava in lui la vista di un demente. Mi pregò tuttavia di non rinunciare a soddisfare la mia curiosità per mera cortesia nei suoi riguardi, e disse che avrebbe proseguito la cavalcata, rallentando però l'andatura, così che avrei potuto raggiungerlo quello stesso giorno o, al più tardi, il giorno dopo. Mentre si congedava da me, mi venne in mente che forse accedere a quell'edificio poteva presentare qualche difficoltà, e accennai a questo mio timore; egli mi replicò che in effetti, a meno che non conoscessi di persona il direttore, Monsieur Maillard, o avessi qualche credenziale sotto forma di lettera di presentazione, avrei potuto incontrare qualche difficoltà, giacché in questi manicomi privati i regolamenti erano più rigidi di quelli vigenti negli ospedali pubblici. Quanto a lui, aggiunse, alcuni anni prima aveva fatto la conoscenza di Maillard, e per quel tanto che poteva mi avrebbe aiutato, accompagnandomi fino all'ingresso e presentandomi, sebbene le sue reazioni, quando si trattava di follia, non gli consentissero di entrare in quella casa.
Lo ringraziai e, deviando dalla strada maestra, imboccammo un sentiero folto d'erba che dopo mezz'ora quasi si perse in una fitta foresta ai piedi d'una montagna. Cavalcammo per un paio di miglia attraverso quella boscaglia umida e tetra, e giungemmo in vista della Maison de Santé. Era un bizzarro château, quasi una rovina, reso pressoché inabitabile dal tempo e dall'incuria. Il suo aspetto mi ispirò un così vivo terrore che, frenato il cavallo, quasi mi risolsi a fare dietrofront; ma subito mi vergognai della mia debolezza e proseguii.
Mentre, risalendo il pendio, ci avvicinavamo al cancello, notai che era accostato e che, attraverso l'apertura, s'intravvedeva il viso di un uomo intento ad osservarci. Un istante dopo, l'uomo si fece avanti, si rivolse al mio amico chiamandolo per nome, gli strinse cordialmente la mano, e lo pregò di smontare. Era Monsieur Maillard in persona: un gentiluomo di vecchia scuola, prestante e di bell'aspetto, di modi raffinati e con una cert'aria di gravità, dignità e autorevolezza davvero imponente e suggestiva.
Il mio amico, dopo avermi presentato, menzionò il mio desiderio di visitare l'istituto, e Monsieur Maillard l'assicurò che mi avrebbe fornito ogni assistenza; dopodiché il mio compagno di viaggio si congedò e non lo vidi più.
Come si fu allontanato, il direttore mi fece accomodare in un minuscolo salotto estremamente ordinato che, tra altri indizi di un gusto raffinato, conteneva libri, disegni, vasi di fiori, strumenti musicali. Nel caminetto ardeva un bel fuoco. Al piano sedeva una donna giovane, bellissima, che cantava un'aria di Bellini; al mio ingresso, il canto s'interruppe, ed ella mi accolse con soave cortesia. Parlava con voce sommessa, e tutto il suo modo di fare era quieto, riservato. Mi parve anche di scorgere tracce di sofferenza sul suo volto, che era di un pallore estremo ma, a mio modo di vedere, non sgradevole. Vestiva in lutto stretto, e mi suscitò in cuore un sentimento misto di rispetto, di interesse e di ammirazione.
Avevo sentito dire, a Parigi, che l'istituto di Monsieur Maillard era condotto con quello che volgarmente si definisce «sistema morbido»; che ogni punizione era bandita; che solo di rado si ricorreva all'isolamento; che a tutti i pazienti, pur sempre vigilati in segreto, si concedeva in apparenza grande libertà, e che alla maggior parte di loro si consentiva di muoversi per la casa e per i giardini, vestiti come normalmente vestono le persone sane di mente.
Suggestionato da tali particolari, fui molto guardingo nel rivolgermi alla giovane dama, giacché non potevo avere la certezza che fosse del tutto normale; e, in effetti, c'era nei suoi occhi una certa inquieta lucentezza che quasi mi indusse a pensare che normale non fosse. Limitai pertanto le mie osservazioni a temi generali, e tali che a mio avviso non sarebbero riuscite sgradevoli o pericolosamente eccitanti nemmeno a una pazza. A tutto ciò che dicevo ella replicò in modo perfettamente ragionevole, e anche le sue osservazioni erano caratterizzate dal più schietto buon senso; ma una lunga familiarità con la metafisica della mania mi aveva insegnato a non prestar fede a tali prove di sanità mentale, per cui, durante tutto il colloquio, seguitai ad attenermi alla cautela con cui l'avevo iniziato.
Di lì a poco un elegante cameriere In livrea portò un vassoio con frutta, vino, ed altri rinfreschi, di cui mi servii; subito dopo, la signora lasciò la stanza. Mentre usciva, volsi gli occhi verso il mio ospite, con aria interrogativa.
«No», disse lui. «Oh, no! Fa parte della mia famiglia: è mia nipote, una donna squisita».
«Chiedo mille volte scusa per il mio sospetto», risposi, «ma certo vorrete perdonarmi. L'eccellente amministrazione del vostro istituto è ben nota a Parigi, e ho pensato che fosse possibile, voi mi capite...».
«Sì, sì, non dite altro; anzi, sono io che dovrei ringraziarvi per la lodevole prudenza da voi mostrata. Di rado troviamo nei giovani tanta cautela; più di una volta si sono verificati incresciosi contretemps a causa della sbadataggine dei nostri visitatori. Quando si praticava il mio metodo precedente e si consentiva ai miei pazienti di andarsene qua e là a piacer loro, spesso accadeva che persone ammesse a visitare la casa li portassero, con la loro mancanza di tatto, a un pericoloso stato di agitazione. Pertanto mi vidi costretto a imporre un rigido sistema d'esclusione, e a nessuno è stato più consentito l'accesso a meno che io non potessi fare affidamento sulla sua discrezione».
«Quando si praticava il metodo precedente, avete detto?», dissi, ripetendo le sue parole. «Debbo dedurne che il "sistema morbido", di cui tanto ho sentito parlare, non è più in vigore?».
«Ormai da molte settimane abbiamo deciso di rinunciarvi per sempre».
«Veramente? Mi stupite!».
«Abbiamo scoperto, signore», disse con un sospiro, «che era assolutamente necessario tornare alle antiche usanze. Il rischio del sistema morbido è stato, in ogni tempo, spaventoso, e i suoi vantaggi di molto sopravvalutati. Credo, signore, che qui, nella nostra casa, lo abbiamo messo alla prova più e meglio che in qualsiasi altra. Abbiamo fatto tutto ciò che un ragionevole senso di umanità poteva suggerire. Mi duole che non abbiate potuto farci visita in precedenza: avreste giudicato da voi. Ma suppongo che il sistema morbido vi sia familiare: nei particolari, intendo».
«Per nulla. Quel che so l'ho appreso di terza o quarta mano».
«Posso allora definirlo, grosso modo, come un sistema in cui i pazienti venivano ménagés, assecondati. Non contrariavamo mai nessuna delle fantasie che entravano nel cervello di un matto. Al contrario, non solo le accettavamo, ma le incoraggiavamo; e alcune delle guarigioni più durevoli sono state ottenute in tal modo. Non v'è argomento che tanto commuova la fragile ragione di un folle quanto la reductio ad absurdum. Abbiamo avuto taluni, ad esempio, che immaginavano di essere polli. La cura consisteva nell'accettare la cosa come un fatto reale, nell'accusare il paziente di stupidità, se non si avvedeva a sufficienza che era un fatto reale, e di conseguenza nel rifiutargli per una settimana qualsiasi cibo che non fosse quello adatto ai polli. In questo modo un po' di grano e ghiaietta riuscì a far miracoli».
«Ma questa sorta di acquiescenza era tutto?».
«No, assolutamente. Riponevamo grande fiducia negli svaghi più naturali, come la musica, la danza, gli esercizi ginnici in genere, taluni giochi alle carte, talune letture, e così via. Facevamo mostra di curare ciascun individuo come se il suo fosse un comune disturbo fisico, e la parola «pazzia» non veniva mai usata. Di fondamentale importanza era affidare a ciascun matto il compito di tener d'occhio il comportamento di tutti gli altri. Riporre fiducia nell'intelligenza o nella discrezione di un folle significa conquistarselo, anima e corpo. In questo modo potevamo fare a meno di un costoso corpo di sorveglianti».
«E non v'erano punizioni di nessun genere?».
«Assolutamente».
«I pazienti non venivano mai posti in isolamento?».
«Molto raramente. Di quando in quando, se la malattia di qualcuno arrivava a un punto critico, o se improvvisamente degenerava in pazzia furiosa, allora lo segregavamo in una cella appartata, per evitare che il suo male contagiasse gli altri, e lo trattenevamo finché potevamo riportarlo tra i suoi compagni, giacché coi pazzi furiosi non abbiamo a che fare. Di regola li affidiamo ai manicomi pubblici».
«E ora avete cambiato tutto e, credete, per il meglio?».
«Decisamente. Il sistema aveva i suoi svantaggi, e anche i suoi rischi. Ora, fortunatamente, è stato abbandonato in tutte le Maisons de Santé di Francia».
«Quanto, mi dite», replicai, «mi sorprende molto; ero certo, infatti, che attualmente non esistesse in alcuna parte del paese altro metodo per la cura della pazzia».
«Siete ancora giovane, amico mio», ribatté il mio ospite, «ma verrà il giorno in cui imparerete a giudicare per conto vostro quanto accade nel mondo, senza prestar fede alle chiacchiere altrui. Non credete a nulla di ciò che sentite dire, e solo alla metà di ciò che vedete. Per quanto concerne la nostra Maison de Santé, è evidente che qualche saccentone vi ha male informato. Dopo pranzo, comunque, quando vi sarete riposato a sufficienza delle fatiche della cavalcata, sarò lieto di mostrarvi tutta quanta la casa e di farvi conoscere un sistema che, secondo l'opinione mia e di quanti lo hanno visto all'opera, è di gran lunga il più efficace di quanti ne siano mai stati escogitati».
«Un sistema vostro?» chiesi, «un sistema di vostra invenzione?».
«Sono orgoglioso», rispose, «di ammettere che lo è, almeno in qualche misura».
In tal modo conversai con Monsieur Maillard per un paio d'ore, durante le quali mi mostrò i giardini e le serre.
«Per il momento», disse, «non posso lasciarvi vedere i miei pazienti. Per un animo sensibile spettacoli del genere hanno sempre un che di scioccante, e non vorrei guastarvi l'appetito prima di pranzo. Pranzeremo insieme. Vi posso offrire vitella à la Sainte Menehoult, con cavolfiori à la sauce veloutée; poi un bicchiere di Clos-Vougeôt, e allora i vostri nervi saranno abbastanza saldi».
Alle sei, il pranzo venne annunciato, e il mio ospite mi accompagnò in - una vasta salle à manger, dove era riunita una numerosa comitiva, venticinque o trenta persone in tutto. Erano, evidentemente, persone di rango, certo della buona società, sebbene il loro abbigliamento fosse, a mio avviso, fastoso fino alla stravaganza e ostentasse anche troppo certe vistose raffinatezze da vieille cour. Notai che non meno di due terzi degli invitati erano signore; e di queste alcune non erano davvero vestite con quello che oggi un parigino giudicherebbe buon gusto. Ad esempio, molte donne che dovevano essere sulla settantina erano sovraccariche di gioielli - anelli, braccialetti, orecchini - e avevano seno e braccia impudicamente nudi. Osservai, inoltre, che ben pochi vestiti erano di buona fattura: o, quanto meno, che ben pochi si attagliavano a chi li indossava. Guardandomi attorno, riconobbi l'interessante ragazza alla quale Monsieur Maillard mi aveva presentato nel salottino, ma grande fu la mia sorpresa nel vedere che indossava un guardinfante con tanto di cerchi, scarpe con tacco alto, e una sudicia cuffia in pizzo di Bruxelles, troppo grande per lei, che le rimpiccioliva grottescamente il volto. Quando l'avevo vista la prima volta, vestiva, impeccabilmente, in lutto stretto. In breve, nell'abbigliamento di tutta la comitiva c'era un che di bizzarro, e ciò, sulle prime, mi richiamò alla mente la mia idea originaria del «sistema morbido» e mi fece immaginare che Monsieur Maillard m'avesse voluto trarre in inganno sino alla fine del pranzo affinché non mi trovassi a disagio, scoprendomi a tavola con dei matti; mi rammentai tuttavia di aver sentito dire a Parigi che i provinciali del Sud erano gente particolarmente eccentrica e piena di idee antiquate; e poi, quando presi a conversare con vari membri della compagnia, le mie apprensioni vennero immediatamente e totalmente dissipate.
Anche la sala da pranzo, sebbene abbastanza comoda e di belle dimensioni, non era precisamente elegante. Sul pavimento, ad esempio, non v'erano tappeti; ma si sa che in Francia del tappeto si fa spesso a meno. Le finestre, poi, non avevano tende; gli scuri erano chiusi e assicurati con sbarre di ferro disposte diagonalmente, alla maniera dei battenti delle nostre botteghe. La sala, osservai, formava da sola un'ala dello château, e quindi v'erano finestre su tre lati del parallelogramma, mentre la porta dava sul quarto. V'erano in tutto non meno di dieci finestre.
La tavola era apparecchiata fastosamente: carica di argenteria e sovraccarica di leccornie. La profusione era assolutamente barbarica. C'erano carni a sufficienza da soddisfare quei biblici giganti, gli Anakim. Mai, in tutta la mia vita, mi ero trovato davanti a così folle sfoggio, a così prodigo spreco delle buone cose della vita. Nella disposizione, comunque, faceva difetto il buon gusto; e i miei occhi avvezzi alle luci attenuate erano penosamente offesi dal prodigioso splendore di un'infinità di candele di cera che, nei loro candelabri d'argento, erano disposte sul tavolo e tutt'intorno per la stanza, dovunque ci fosse posto. Servivano gli ospiti numerosi camerieri, attenti e solerti; e, su di un gran tavolo all'altra estremità della sala, sedevano sette o otto individui con violini, flauti, tromboni e un tamburo. Costoro mi diedero un gran fastidio, a regolari intervalli durante il pranzo, con una infinita varietà di rumori, che intendevano di passare per musica, e che sembravano grandemente dilettare i presenti, me eccettuato.
In complesso, non potevo fare a meno di pensare che in tutto ciò che vedevo vi fosse, e in buona dose, un che di bizarre, ma in fondo il mondo è fatto di persone d'ogni sorta che la pensano in tutti i modi e praticano usi e costumi d'ogni genere. E poi, avevo viaggiato tanto da essere ormai un vero adepto del nil admirari; pertanto, occupai con tutta tranquillità la mia sedia alla destra dell'ospite, e avendo un appetito eccellente, resi giustizia al festino che mi veniva offerto.
Nel frattempo la conversazione si era fatta animata e generale. Al solito, le signore chiacchieravano, chiacchieravano. Scoprii ben presto che quasi tutti i commensali erano persone colte; il mio ospite, poi, era una fonte inesauribile di divertentissimi aneddoti. Sembrava che parlare della sua posizione di direttore di una Maison de Santé gli desse particolare piacere; e in effetti, con mia grande sorpresa, quello della pazzia era, per tutti i presenti, l'argomento preferito. Così raccontarono un buon numero di storielle amene sui «capricci» dei pazienti.
«Una volta avevamo qui un tale», disse un signore piccolo e grasso, seduto alla mia destra, «un tale che si immaginava di essere una teiera; a proposito, non è strano che questo particolare pallino sia entrato tanto spesso in testa ai matti? In Francia non c'è un solo manicomio che non sia in grado di fornirvi una teiera umana. Il nostro signore era una teiera di porcellana Britannia, e aveva un gran da fare, ogni mattina, a lucidarsi con pelle di daino e bianchetto».
«E poi», disse un uomo alto, che gli sedeva di fronte, «non molto tempo fa avevamo qui un tale che s'era ficcato in testa di essere un asino: il che, allegoricamente, era verissimo, direte voi. Era un paziente molto molesto, e dovevamo faticare per tenerlo a freno. Per un pezzo non volle mangiare che cardi, solo cardi; ma di questa mania lo curammo insistendo a non fargli mangiare nient'altro. E poi, scalciava continuamente: così... così...».
«Signor De Kock, vi sarò grata se vorrete comportarvi come si deve!», lo interruppe a questo punto una vecchia signora che gli sedeva accanto. «Tenete a posto i piedi, per favore! M'avete tutto sgualcito il mio broccato! È proprio necessario, di grazia, illustrare un'osservazione in modo così concreto? Il nostro amico qui potrà certo intendervi senza questa dimostrazione. Parola mia, siete un asino quasi altrettanto grande di quello che il povero sventurato s'immaginava d'essere. Vi giuro che il vostro comportamento è del tutto naturale».
«Mille pardons! Mam'selle!» rispose Monsieur De Kock, così rimbeccato, «mille scuse. Non intendevo offendere Mam'selle Laplace, Monsieur De Kock sarà onorato di brindare con voi».
E Monsieur De Kock fece un profondo inchino, si baciò cerimoniosamente la mano, e brindò con Mam'selle Laplace.
«Permettetemi, mon ami», disse a questo punto Monsieur Maillard, rivolgendosi a me. «Permettetemi di offrirvi un boccone di questo vitello à la Sainte-Menehoult: lo troverete assolutamente squisito».
In quel momento tre gagliardi camerieri erano riusciti a fatica a deporre sul tavolo un tagliere enorme, che conteneva quel che mi parve un «monstrum horrendum, informe, ingens, cui lumen adeptum». Un più attento esame mi rivelò che era solo un vitellino arrostito tutt'intero e piegato sui ginocchi, con una mela in bocca, servito come in Inghilterra si serve la lepre.
«Grazie, no», risposi, «a dire il vero, non amo molto il vitello à la Sainte... com'è che si chiama? In genere non lo trovo proprio di mio gusto. Piuttosto cambierei piatto e assaggerei un poco di coniglio».
Sulla tavola c'erano molti piatti, oltre a quello principale, e contenevano qualcosa che aveva l'aria d'essere comune coniglio francese: un bocconcino prelibato, ve lo raccomando.
«Pierre», gridò il mio ospite, «cambia il piatto al signore, e dagli una bella porzione di questo coniglio au-chat».
«Questo che cosa?», feci io.
«Questo coniglio au-chat».
«Ecco, ripensandoci, no, grazie. Prenderò un po' di prosciutto».
Non si sa mai quello che ti danno da mangiare, pensavo tra di me, alla tavola di questi provinciali. Non ne voglio sapere del loro coniglio au-chat e neanche del loro gatto al coniglio, se è per questo.
«E poi», disse un personaggio dall'aspetto cadaverico che sedeva a un'estremità del tavolo, riprendendo il filo della conversazione là dove s'era interrotto, «e poi, tra le altre stravaganze, una volta abbiamo avuto un paziente che sosteneva ostinatamente di essere un formaggio di Cordova e andava in giro con un coltello in mano, esortando gli amici ad assaggiare una fettina del suo polpaccio».
«Un gran matto, non c'è dubbio», interloquì un altro, «ma niente in confronto con quel tale che tutti conosciamo, eccetto questo signore forestiero. Parlo del tizio che si riteneva una bottiglia di champagne, e se ne usciva continuamente con un botto e un sibilo, a questa maniera».
E qui colui che parlava, molto ineducatamente, a mio modo di vedere, infilò il pollice destro nella guancia sinistra, lo ritrasse con un rumore simile al botto di un tappo, e poi, con abile movimento della lingua contro i denti, produsse un acuto sibilo e uno sfrigolio che durarono parecchi minuti, a imitazione dello spumeggiare dello champagne. Questo contegno, lo vidi chiaramente, non garbò molto a Monsieur Maillard; tuttavia egli non disse nulla, e la conversazione venne ripresa da un ometto magro magro con una gran parrucca.
«E poi c'era un ignorante», disse, «che si prendeva per una rana: alla quale, diciamolo pure, assomigliava parecchio. Vorrei che l'aveste veduto, signore», e qui chi parlava si rivolse a me; «vi avrebbe fatto bene al cuore vedere le arie che assumeva: proprio naturali. Signore, se quell'uomo non era una rana, posso solo osservare: è un peccato che non lo fosse. Il suo gracidio, così: uagh! uagh!, era la più ricca nota di questo mondo (un si bemolle); e quando puntava i gomiti a questo modo sul tavolo, dopo aver bevuto un paio di bicchieri di vino, e allargava la bocca a questo modo, e ruotava gli occhi all'insù - ecco, a questo modo - li sbatteva svelto svelto - così, a questo modo - ebbene, signore, mi permetto di dire, di affermare anzi, che sareste rimasto preso d'ammirazione per il genio di quell'uomo».
«Non ne dubito», dissi.
«E poi», disse un altro, «c'era Petit Gaillard che si credeva una presa di tabacco, e si disperava perché non riusciva a prendersi fra l'indice e il pollice».
«E poi c'era Jules Desoulières, genio singolarissimo davvero, che impazzì perché convinto d'essere un zucca. Non lasciava mai in pace il cuoco: voleva che lo trasformasse in pasticcini, cosa che il cuoco si rifiutava di fare con indignazione. Per parte mia, non sono affatto certo che un pasticcio di zucca à la Desoulières non sarebbe stato una squisitezza, davvero!».
«Mi sbalordite!» dissi io; e rivolsi uno sguardo interrogativo a Monsieur Maillard.
«Ah, ah, ah!» sbottò il gentiluomo, «eh, eh, eh! ih, ih!, ih! oh, oh! uh, uh, uh!... Buona, questa! No, non dovete sbalordirvi, mon ami; il nostro amico qui è un bellospirito, un drôle; non dovete prenderlo alla lettera».
«E poi», disse un altro della compagnia, «poi c'era Buffon Le Grand: a suo modo, un altro personaggio straordinario. Aveva perduto il senno per amore, e si figurava d'essere in possesso di due teste. Una, sosteneva, era la testa di Cicerone; l'altra l'immaginava composta: testa di Demostene dalla cima della fronte alla bocca, e testa di Lord Brougham dalla bocca al mento. Non è impossibile che avesse torto, ma v'avrebbe convinto d'aver ragione, perché era uomo di grande eloquenza. Aveva una vera passione per l'oratoria, e non poteva trattenersi dall'ostentarla. Ad esempio, aveva l'abitudine di saltare sulla tavola da pranzo così, e, e...».
Qui un amico, che gli sedeva a fianco, gli pose una mano sulla spalla e gli bisbigliò qualche parola all'orecchio; al che l'altro prontamente smise di parlare, e ricadde a sedere.
«E poi», disse quel tale che aveva bisbigliato, «c'era Boullard, la trottola. Lo chiamo così, perché aveva il pallino, buffo ma non del tutto irrazionale, d'essersi trasformato in una trottola. Vi sareste sbellicato dalle risa, a vederlo girare. Era capace di roteare e roteare e roteare per un'ora reggendosi su un tacco: a questo modo, così...».
Qui l'amico che egli aveva appena interrotto, bisbigliandogli qualcosa, gli rese a sua volta quell'identico servizio.
«Ma allora», esclamò a voce altissima una vecchia signora, «il vostro Monsieur Boullard era un pazzo, e un pazzo molto, molto stupido, anche; perché, se mi è concesso chiederlo, chi mai ha sentito parlare di una trottola umana? È una cosa assurda. Madame Joyeuse era una persona assai più assennata, come ben sapete. Aveva anche lei il suo pallino, ma pieno di buon senso, e che dava piacere a tutti coloro che avevano l'onore di frequentarla. Dopo matura riflessione, aveva concluso che un qualche accidente l'aveva trasformata in un galletto; ma, come tale, si comportava con estremo decoro. Sbatteva le ali con un effetto fantastico... ecco, così, così, proprio così... E, quanto al suo chicchirichì, oh, era una delizia! Chicchiricchì, chicchirichìi, chicchirichìii, chicchichicchichicchirichìiiii!».
«Madame Joyeuse, vi sarò grato se vi comporterete come si deve!» l'interruppe adiratissimo il nostro ospite. «O tenete il contegno che si addice a una signora, o lasciate subito la tavola: a voi la scelta».
La signora, che con grande stupore avevo sentito chiamare «Madame Joyeuse», dopo la descrizione di Madame Joyeuse che lei stessa aveva dato, arrossì fino alle sopracciglia, e parve profondamente mortificata dal rimprovero. Lasciò cadere la testa, e non replicò una sola sillaba. Ma un'altra donna, più giovane, riprese il discorso: la bella dama del salottino!
«Oh, Madame Joyeuse era una matta davvero!» esclamò.
«Invece nelle opinioni di Eugénie Salsafette c'era del buon senso, e molto anche. Era una giovane bellissima, modesta all'eccesso, che riteneva indecente il consueto modo di vestirsi, e desiderava vestirsi uscendo degli abiti, non entrandovi. In fondo, è una cosa molto facile a farsi. Basta fare così, e poi così, e poi ancora così e così, e poi...».
«Mon dieu! Mam'selle Salsafette!», proruppero tutte insieme una dozzina di voci. «Ma che fate? Fermatevi! Basta così! Abbiamo visto benissimo come si fa! Basta, basta!» e già parecchie persone balzavano in piedi per impedire a Mam'selle Salsafette di imitare la Venere dei Medici, quando il loro scopo venne improvvisamente ed efficacemente raggiunto da una serie di alte grida o urla provenienti dal corpo centrale dello château.
I miei nervi vennero messi a dura prova da quelle urla, ma gli altri membri della compagnia mi mossero veramente a compassione. Mai ho visto in vita mia persone ragionevoli così atterrite. Si fecero tutti pallidi come cadaveri e, rannicchiati sulle loro sedie, tremavano e balbettavano dal terrore, l'orecchio in attesa del ripetersi di quei suoni. Che infatti si ripeterono, più alti e apparentemente più vicini - e ancora una terza volta, altissimi, e infine una quarta, con intensità chiaramente minore. Come quell'urlio parve smorzarsi, la compagnia ritrovò immediatamente il suo brio, e ripresero e l'animazione e gli aneddoti.
«Una semplice bagatelle», disse Monsieur Maillard. «Siamo abituati a queste cose, e neppure ci badiamo. I pazzi, di tanto in tanto, si mettono a urlare tutti insieme; uno provoca l'altro, come succede a volte di notte in una muta di cani. Talora però accade che il concerto d'urla venga seguito da un simultaneo tentativo di evasione; e allora, naturalmente, c'è da temere qualche pericolo».
«E quanti ne avete in custodia?».
«Al momento, non più di dieci in tutto».
«Per lo più donne, presumo».
«Oh, no! tutti uomini, e anche robusti, vi dirò».
«Davvero! Avevo sempre sentito dire che la maggioranza dei pazzi appartiene al gentil sesso».
«In genere è così, ma non sempre. Qualche tempo fa avevamo qui all'incirca ventisette pazienti, e non meno di diciotto erano donne; ma recentemente le cose sono molto cambiate, come potete vedere».
«Sì, sono molto cambiate, come potete vedere», interruppe il signore che aveva rotto gli stinchi di Mam'selle Laplace.
«Sì, sono molto cambiate, come potete vedere!», fece in coro l'intera compagnia.
«Tenete ferma la lingua, tutti quanti!», disse il mio ospite, infuriato. Al che l'intera compagnia osservò un completo silenzio per circa un minuto. Anzi, una signora obbedì alla lettera Monsieur Maillard: tirò fuori la lingua, che era incredibilmente lunga, e con aria rassegnata la tenne ferma con entrambe le mani fino al termine del festino.
«E quella dama», dissi a Monsieur Maillard, piegandomi verso di lui e parlandogli piano all'orecchio, «quella brava signora che ha parlato poco fa, quella che lancia i suoi chicchirichì... be', suppongo che sia innocua, assolutamente innocua, no?».
«Innocua!», esclamò con schietto stupore «ma... ma cosa intendete dire?».
«Ecco, solo un po' tocca?», dissi io, toccandomi la testa. «Do per scontato che non sia... che non sia un caso particolarmente grave, vero?».
«Mon Dieu! Ma che andate immaginando? Questa dama, mia cara vecchia amica, Madame Joyeuse, è sana di mente come lo sono io. Certo, ha le sue piccole eccentricità, ma, sapete, tutte le donne anziane... tutte le donne molto anziane sono più o meno eccentriche».
«Certo, certo», dissi, «e... gli altri, queste signore e questi signori...».
«Sono amici e infermieri», interruppe Maillard, ergendosi con una certa hauteur, «miei buoni amici e assistenti».
«Come, tutti?», chiesi. «Donne e uomini?».
«Sicuro», disse. «Non potremmo far nulla, senza le donne. Per i pazzi non ci sono al mondo infermieri migliori; hanno un modo tutto loro, sapete; i loro occhi luminosi hanno un effetto straordinario: un po', sapete, come il fascino del serpente».
«Certo, certo!», dissi. «Si comportano in modo un po' singolare, no? Sono un po' stravaganti, eh? Non vi pare?».
«Singolare! Stravagante! Ma davvero lo credete? Certo, qui nel Sud non siamo tanto schizzinosi, facciamo un po' come ci pare, ci godiamo la vita, eccetera eccetera, capite?».
«Oh certo», dissi, «oh certo».
«E poi, forse, questo Clos-Vougeôt dà un po' alla testa, è piuttosto robusto, mi capite?».
«Oh certo», dissi, «oh certo. A proposito, signore, avete detto, se ho ben capito, che il sistema da voi adottato in luogo del famoso «sistema morbido» era improntato alla più rigorosa severità».
«Niente affatto. L'isolamento è, per forza di cose, severo; ma la cura - intendo il trattamento medico - è piuttosto gradevole per i pazienti».
«E il nuovo sistema è di vostra invenzione?».
«Non del tutto. Alcune parti vanno attribuite al Professor Catrame, del quale senza dubbio avrete sentito parlare; e ci sono poi alcune modifiche nel mio metodo, il cui merito - sono ben lieto di riconoscerlo - va tutto al famoso Piuma, che, se non vado errato, voi avete l'onore di conoscere di persona».
«Mi vergogno di confessare», risposi, «che mai prima d'ora avevo udito il nome di questi signori».
«Santi numi!», esclamò il mio ospite, scostando bruscamente la sua sedia e levando le mani al cielo, «certo non vi ho sentito bene! No, non vorrete dire che non avete mai sentito parlare del celebre Dottor Catrame e del rinomato Professor Piuma?».



«Sono costretto a riconoscere la mia ignoranza», risposi; ma la verità innanzi tutto. Mi sento umiliato, annientato per non essere a conoscenza delle opere di questi uomini indubbiamente straordinari. Cercherò al più presto le loro pubblicazioni e le studierò con la massima attenzione. Monsieur Maillard, debbo confessarlo, veramente mi avete fatto vergognare di me stesso».
Ed era così, in effetti.
«Non aggiungete altro, mio giovane amico», replicò cortesemente, prendendomi la mano, «beviamoci sopra un bicchiere di Sauterne».
Bevemmo. Tutta la compagnia seguì con slancio il nostro esempio. Chiacchieravano, scherzavano, ridevano, facevano una quantità di cose assurde, stridevano i violini, tuonava il tamburo, i tromboni muggivano come tanti tori di Falaride, e tutta la scena andava degenerando man mano che i vini avevano la meglio, finché la festa finì in una sorta di pandemonio. Nel frattempo, Monsieur Maillard ed io, con l'aiuto di alcune bottiglie di Sauterne e di Vougeôt, continuavamo la nostra conversazione urlando a squarciagola. Una parola pronunciata in chiave normale non aveva speranza di farsi udire più della voce di un pesce dal fondo delle cascate del Niagara.
«E, signore», dissi io, urlandogli nell'orecchio, «prima di pranzo avete accennato ai rischi del vecchio sistema morbido. Di che si tratta?».
«Sì», rispose, «di tanto in tanto presentava dei rischi, e grossi. Non è possibile prevedere tutti i capricci dei pazzi; e, secondo la mia opinione, come pure secondo il Dottor Catrame e il Professor Piuma, non è mai prudente lasciarli andare attorno senza vigilanza. Il pazzo lo si potrà «ammorbidire», come suol dirsi, per qualche tempo, ma alla fine è molto probabile che diventi aggressivo. E poi c'è la sua astuzia: grande, proverbiale. Se ha in mente un'idea, nasconde il suo intento con mirabile buon senso; e la destrezza con cui sa contraffare la sanità mentale presenta al filosofo che si occupa dei problemi della mente umana uno dei più singolari problemi. Quando un pazzo appare perfettamente sano di mente, quello è il momento di mettergli la camicia di forza».
«Ma, mio caro signore, il pericolo di cui dicevate di aver fatto personale esperienza... da che reggete questo istituto... avete mai avuto motivi concreti per ritenere la libertà rischiosa, nel caso di un pazzo?».
«Qui? Stando alla mia personale esperienza?... Be', direi di sì. Un esempio: non molto tempo fa, proprio in questa casa si verificò una singolare circostanza. Allora, sapete, vigeva il sistema morbido, e i pazienti erano in libertà. Si comportavano bene, particolarmente bene, e ogni persona di buon senso avrebbe capito da quel loro comportarsi particolarmente bene che si stava tramando qualche diavoleria. E per l'appunto, una bella mattina, i sorveglianti si ritrovarono legati mani e piedi e buttati nelle celle, dove i matti, usurpando le funzioni dei sorveglianti, li trattarono come se loro fossero i matti».
«Ma no! In vita mia non ho mai sentito niente di così assurdo!».
«È un fatto, e tutto accadde perché uno stupido di pazzo s'era messo in testa d'avere inventato un sistema di governo migliore di quanti ce ne fossero stati prima: di governo dei matti, voglio dire. Voleva sperimentare la sua invenzione, suppongo; e così persuase gli altri pazienti a unirsi a lui in una congiura per rovesciare il potere delle autorità costituite».
«E ci riuscì davvero?».
«Ci riuscì. Sorveglianti e sorvegliati finirono con lo scambiarsi le parti. Non proprio esattamente, perché i matti prima erano lasciati liberi, ma i sorveglianti furono subito chiusi nelle celle e trattati, mi duole dirlo, in modo molto insolente».
«Ma suppongo che ben presto vi sia stata una controrivoluzione. Questo stato di cose non poteva durare. I contadini dei dintorni, le persone che venivano in visita all'istituto avranno ben dato l'allarme».
«Qui vi sbagliate. Il capo dei ribelli era troppo astuto. Proibì tutte le visite: tranne, un giorno, quella di un giovanotto dall'aria stupida, del quale non aveva motivo di aver paura. Lo fece entrare e gli fece visitare la casa: così, per amore di un po' di varietà, per divertirsi a sue spese. Quando lo ebbe preso in giro abbastanza, lo lasciò libero, e lo mandò per i fatti suoi».
«E per quanto tempo, dunque, regnarono i matti?».
«Oh, per un bel pezzo, sì: un mese, di certo; se più a lungo, non saprei. E intanto, i matti se la spassavano, ci potete giurare. Buttarono le loro squallide vestaglie, e attinsero a piacer loro al guardaroba e ai gioielli di famiglia. Le cantine del nostro château erano ben provviste, e quanto a vini, questi matti la sanno lunga quanto il diavolo. Se la passavano bene, ve l'assicuro».
«E la cura... quale fu il tipo particolare di cura introdotta dal capo dei ribelli?».
«Be', sapete, un matto non è necessariamente uno sciocco, come ho già osservato; ed è mia modesta opinione che la sua cura fosse assai migliore della precedente. Era un sistema magnifico: semplice, pulito, nessuna complicazione. Era veramente delizioso... era ...».
A questo punto, le osservazioni del mio ospite furono interrotte da una nuova serie di urla del medesimo tipo di quelle che ci avevano sconcertato in precedenza.
«Buon Dio!», esclamai; «non c'è dubbio, i pazzi sono scappati».
«Temo proprio che sia così», rispose Monsieur Maillard, facendosi estremamente pallido. Non aveva finito la frase, che sotto le finestre si udirono, altissime, grida e imprecazioni; e subito divenne evidente che fuori c'era gente che tentava di penetrare nella stanza. La porta venne percossa da quello che si sarebbe detto un maglio, e gli scuri scossi e divelti con straordinaria violenza.
Seguì una scena di terribile confusione. Con mio enorme stupore, Monsieur Maillard si gettò sotto la credenza. Da lui mi ero aspettato maggior risolutezza. I membri dell'orchestra, che da una quindicina di minuti erano apparentemente troppo ubriachi per assolvere i loro doveri, ora scattarono in piedi tutti insieme, afferrarono gli strumenti e, issatisi su quel loro gran tavolo, tutti insieme attaccarono «Yankee Doodle», che eseguirono, se non proprio intonati, certo con sovrumana energia, per tutta la durata di quel putiferio.
Intanto, sul tavolo principale, tra bottiglie e bicchieri, balzò il gentiluomo cui in precedenza si era impedito con tanta difficoltà di arrampicarvisi. Non appena si fu sistemato, attaccò un'orazione, certamente eccelsa, se solo la si fosse potuta ascoltare. Nello stesso tempo, il signore portato alla trottolomania cominciò a ruotare per la stanza con immensa energia e braccia tese ad angolo retto col corpo; e in effetti aveva tutta l'aria di una trottola, e buttava a terra chiunque capitava sul suo percorso. E ora, udendo un formidabile botto e il sibilo dello champagne, individuai alla fine la persona che durante il pranzo aveva impersonato la bottiglia di quella squisita bevanda. Inoltre, l'uomo-rana prese a gracidare con tutte le sue forze, come se la salvezza della sua anima dipendesse da ogni nota che emetteva. E in mezzo a tutto questo dominava, ininterrotto, il raglio di un asino. Quanto alla mia vecchia amica, Madame Joyeuse, avrei davvero pianto per la povera signora, tanto appariva smarrita. Comunque, si limitò a starsene ritta in un angolo, accanto al caminetto, e a intonare senza tregua, a voce spiegata, il suo «Chicchirichìii!».
Ed eccoci all'autentico climax, alla catastrofe del dramma. Poiché agli assalti dall'esterno non veniva opposta nessuna resistenza oltre che grida e versacci e chicchirichì, le dieci finestre vennero rapidamente, e quasi simultaneamente, sfondate. E non dimenticherò mai il senso di stupore e d'orrore con cui vidi balzar dentro da quelle finestre e precipitarsi in mezzo a noi pêle-mêle, urlando, attaccandoci coi piedi, con le mani, con le unghie, un vero e proprio esercito di esseri che scambiai per scimpanzé, orang-outang, e babbuini neri del Capo di Buona Speranza.
Mi presi un sacco di botte, dopo di che finii rotoloni sotto un sofà e restai lì senza muovermi. Dopo esserci restato per un quarto d'ora, durante il qual tempo ascoltai con gli orecchi tesi ciò che accadeva nella stanza, giunsi al felice dénouement della tragedia. Monsieur Maillard - ormai la cosa era chiara - raccontandomi del matto che aveva incitato alla rivolta i compagni, aveva solo riferito le proprie gesta. Codesto gentiluomo due o tre anni prima era veramente stato direttore dell'istituto; ma era diventato matto anche lui, ed era perciò finito tra i pazienti. Il fatto era ignoto al compagno di viaggio che mi aveva presentato. I sorveglianti, dieci in tutto, subito sopraffatti, erano stati ben coperti prima di catrame e poi di piume, e quindi rinchiusi nelle celle sotterranee. Erano rimasti così imprigionati per più di un mese, durante il quale Monsieur Maillard aveva loro generosamente elargito non solo catrame e piume (che costituivano il suo «sistema»), ma anche un po' di pane, e acqua in abbondanza. Quest'ultima gliela pompavano addosso ogni giorno. Alla fine, uno riuscì a fuggire passando per le fogne e rimise in libertà tutti gli altri.
Il «sistema morbido», con alcune importanti modifiche, è stato ripristinato allo château; tuttavia non posso fare a meno di convenire con Monsieur Maillard: il suo metodo di «cura» era, nel suo genere, formidabile. Come aveva giustamente osservato, era «semplice, pulito, nessuna complicazione».
Debbo solo aggiungere che, sebbene abbia frugato in tutte le biblioteche d'Europa alla ricerca delle opere del Dottor Catrame e del Professor Piuma, i miei tentativi di rintracciarne una sola copia sono, a tutt'oggi, risultati vani.

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