Il documento segreto che trasformò la Cina

Il documento segreto che trasformò la Cina

Un racconto di Guglielmo Piombini

fonte: miglioverde



Prologo. La grande carestia.

Ridotto ormai a un scheletro, Tian strisciò fuori dalla capanna. Due dei suoi tre figli non ce l’avevano fatta, e la settimana prima aveva dovuto seppellirli insieme a sua moglie Xue. Doveva assolutamente fare qualcosa per salvare Lian, la figlia più grande, che non smetteva di piangere. Si alzò faticosamente in piedi e lentamente si diresse verso la capanna dei vicini. Bussò alla porta, ma non ricevette risposta. Attese qualche secondo, bussò di nuovo, e poi decise di aprire.

«C’è qualcuno?», chiese con voce flebile.

Ancora silenzio. Fece qualche passo all’interno e scorse qualcosa, nell’angolo opposto della casa. Si avvicinò e riconobbe i corpi abbracciati di Bao e di sua moglie. Poco distanti giacevano gli esili corpicini di quattro bambini. Tian si asciugò le lacrime e uscì.

Capì che era inutile bussare alle altre capanne, e decise di uscire dal villaggio. A Xiaogang, ricordava Tian, vivevano più di venti famiglie. Poi nel 1958 era arrivata la grande carestia, e in meno di due anni il villaggio si era ridotto a un deserto silenzioso e spettrale. Quante famiglie erano rimaste? Quanti amici non vedeva più da tempo? In preda a questi pensieri disperati, Tian pensò che nei campi circostanti avrebbe forse trovato un pezzo di corteccia, qualche insetto o magari un passero. Vagò per ore attorno al villaggio, poi le energie lo abbandonarono. Non aveva trovato nulla di commestibile, neppure un filo d’erba. Si adagiò per terra, pensò per l’ultima volta a Lian, e finì per sempre di soffrire.

Al museo

«Nonno Yen, nonno Yen», esclamò Song appena entrò in casa.

«Com’è andata oggi, Song?»

«Bene. Sai che la scuola ha organizzato per la prossima settimana una visita al museo di Chouzhou? L’insegnante ci ha detto che vedremo una scultura in cui sono raffigurati alcuni dei nostri nonni. È vero? Ci sei anche tu?».

Yen Jingchang poggiò la mano sulla spalla del nipote.

«Sì, Song. Ci sono anch’io nella statua che vedrai al museo».

Il ragazzo guardò il nonno meravigliato: «Non sapevo che tu fossi così famoso, nonno. Perché ti hanno fatto una statua?»

«Caro Song, oggi ti porterò al museo, e lì ti racconterò tutto»

Finito il pranzo, nonno e nipote si recarono al grande Museo Memoriale di Chouzhou. Aperto il 19 giugno 2005, occupava uno spazio di 2 chilometri quadrati. Oltre al salone principale, comprendeva anche diverse sale per le conferenze e un ristorante.

«Questo museo, Song, è stato costruito per ricordare una storia molto importante, accaduta più di 40 anni fa. Prima però andiamo a vedere la statua»

«È quella là?», chiese il ragazzo indicando una grande scultura di gruppo posta al centro della sala, che rappresentava 18 uomini radunati attorno a un tavolo, intenti a firmare un documento. Una targa indicava il nome della statua: “18 impronte rosse”.

«Tu dove sei, nonno?»

«Dovrei essere quello in piedi sulla destra, mi sembra che quell’uomo sia quello che mi rassomiglia di più», rispose ridendo. «L’unico di cui sono sicuro è il mio amico Yan Lihua, che è quello seduto al tavolo con il pennelloin mano».

«Cosa stavate scrivendo?»

«Era il novembre 1978, e ci eravamo radunati in una delle capanne del nostro villaggio per prendere un’importantissima decisione».


La miseria del 1978

Vent’anni erano passati dalla grande carestia del 1958, provocata dal disastroso tentativo di Mao Zedong di imporre il comunismo integrale nelle campagne della Cina. Secondo gli storici, si trattò della più grande carestia della storia umana: una catastrofe che, invece del “grande balzo in avanti”, come l’aveva chiamata pomposamente il fondatore della Repubblica Popolare Cinese, si tradusse in un “salto nella tomba” per 40 milioni di cinesi. Mao era morto due anni prima, nel 1976, e anche se la situazione nelle campagne cinesi non era più così drammatica, la miseria regnava ancora assoluta. Il villaggio di Xiaogang, che aveva perso più della metà della popolazione durante la grande carestia, 67 abitanti su 120, non si era mai ripreso da quella tragedia, ed era rimasto uno dei più poveri della provincia.

«Eravamo molto poveri, Song. Tutti i villaggi delle campagne cinesi, a quel tempo, erano organizzati in comuni, ma una volta consegnato allo Stato la quota di raccolto richiesta, ci restava ben poco per sfamare le nostre famiglie. Tua madre, che allora era una bambina, spesso piangeva per la fame. Mi straziava il cuore. Spesso eravamo costretti a mendicare nei villaggi vicini».

«Che cos’erano le comuni, nonno?»

«Il presidente Mao voleva realizzare il comunismo perfetto. Nessuno doveva più possedere nulla di proprio. Tutto doveva essere in comune».

«Proprio tutto, nonno?»

«Pensa che una volta, durante una riunione con un funzionario del partito comunista, chiesi: “Ma almeno i denti che ho in bocca sono miei?”. “No”, mi rispose, “Anche i tuoi denti appartengono al collettivo”».

«Le altre famiglie del villaggio – continuò Yen ‒ non stavano meglio della nostra. Eravamo disperati. Non sapevamo cosa fare, ma su un punto eravamo tutti d’accordo: non si poteva andare avanti così. Bisognava fare qualcosa. Nell’autunno del 1978, ci venne un’idea, e decidemmo di riunirci per discuterne».


Il patto segreto

La sera del 14 novembre 1978, con il favore delle tenebre, i capifamiglia del villaggio si riunirono segretamente nella capanna di Yan Lihua. Il pavimento era sporco, le mura erano fatte di fango, il tetto di paglia. Naturalmente, non c’erano elettricità, condutture idrauliche né bagni, come in tutte le abitazioni dei contadini cinesi dell’epoca. Il padrone di casa, a bassa voce, spiegò l’idea ai presenti: i terreni agricoli della comune del villaggio sarebbero stati segretamente privatizzati. Ogni famiglia avrebbe ricevuto un lotto di terra, e una volta consegnata la quota al governo, tutto il surplus sarebbe rimasto alla famiglia, che avrebbe potuto anche venderlo nei villaggi vicini.

L’idea spaventò diversi capifamiglia: «È troppo pericoloso, e non credo funzionerà. È come camminare su un filo elettrico ad alta tensione», disse Guan.

«Ma tu cosa ne sai dei fili dell’elettricità? Li hai mai visti?», gli rispose Yen Hongchang. «Non li ho mai visti perché non sono mai stato in città, ma so che chi li tocca muore», replicò Guam.

Il padrone di casa intervenne con decisione: «Smettetela! Volete andare avanti così? L’ultimo raccolto è andato peggio del precedente, e il governo ci chiede ogni anno delle quote di produzione sempre più alte. L’anno prossimo come faremo a pagare? Volete che arrivino le squadre di requisizione? Volete che vi portino via anche il tavolo e i letti? Volete continuare ad ascoltare i pianti dei vostri figli e i lamenti delle vostre mogli, o volete fare qualcosa?».

«Hai ragione, ma cosa facciamo se ci scoprono? Se ci arrestano, chi manterrà le nostre famiglie?», obiettò nuovamente Guan.

«Faccio questa proposta ‒ disse Yen Jingchang ‒ Nel caso qualcuno venga arrestato o giustiziato, tutti gli altri si impegnano a mantenere i suoi figli fino a 18 anni. Metteremo questo impegno per iscritto».

Questa rassicurazione convinse anche i più incerti. «Dobbiamo farlo. Non abbiamo davvero alternative», concluse Hongchanga nome di tutti.

Nel villaggio, Lihuaera uno dei pochi che sapeva scrivere. Aveva imparato da suo zio, che aveva lavorato in città. Prese uno dei preziosi fogli di carta e una boccetta di inchiostro che lo zio gli aveva lasciato molti anni prima, e li pose sul tavolo insieme a un bel pennello fatto a mano, con il manico di legno e la punta di peli. Poi lentamente, alla luce di una lampada ad olio, cominciò a scrivere il patto con cui i presenti si impegnavano a dividersi segretamente i terreni agricoli comuni e i rispettivi raccolti, una volta consegnata la quota allo Stato. Finito di scrivere, estrasse un coltello, si arrotolò la manica della giacca e si incise il braccio. Impresse il pollice nella ferita e firmò il contratto con le proprie impronte digitali. Tutti gli altri, uno alla volta, lo imitarono: presero il coltello, si incisero il braccio, e sottoscrissero col sangue il patto solenne.

«Dove lo conserveremo?», chiese Hongchang.

«Se qualcuno lo scopre, siamo fritti», aggiunse Guan.

Lihua arrotolò il foglio e lo infilò in una canna di bambù. Poi salì in piedi sul tavolo e nascose la canna nel tetto della sua capanna. I presenti si congedarono, e furtivamente ritornarono alla proprie capanne.


Al lavoro

«La nostra non fu una decisione facile», spiegò Yen Jingchang al nipote. «Molti avevano paura. Nella Cina rigidamente comunista di quel tempo, il solo fatto di discutere di un’idea così “individualista” era inconcepibile. Se i funzionari del partito l’avessero saputo, saremmo finiti seriamente nei guai».

«Ad ogni modo – continuò Yen ‒ già la mattina seguente nel villaggio si respirava un’aria diversa. Di solito, nessuno cominciava mai la giornata di lavoro prima delle 8. Aspettavamo il fischio del capovillaggio, e con calma uscivamo dalle nostre capanne per dirigerci verso i campi. Invece quel giorno alle prime luci dell’alba eravamo tutti già fuori».

«Perché quella mattina vi siete alzati così presto?», chiese il nipote.

«Vedi Song, la terra era la stessa, gli strumenti erano gli stessi, le persone erano le stesse, ma le regole erano diverse. E questo cambiava tutto. Prima del nostro contratto, tutto quello che producevano in più finiva alla comune, che doveva consegnarne gran parte allo Stato. In quel sistema, era inutile sfiancarsi tante ore a lavorare nei campi. Se decidevi di sgobbare di più, se ne avvantaggiava anche il tuo vicino, che magari stava tutto il giorno a letto fingendosi malato. Perché sprecare le proprie energie a vantaggio di chi faceva il furbo? In più c’era anche il rischio che, se la comune avesse prodotto di più, l’anno successivo lo Stato ci avrebbe chiesto ancor di più. Credimi, Song: lavorare meglio e di più, in quelle condizioni, non aveva alcun senso».

«E quella mattina cos’era cambiato, nonno?»

«Quella mattina tutti sapevamo che, se avessimo lavorato di più, con maggiore impegno e perizia, ci saremmo tenuti il frutto del nostro lavoro. Inoltre, tutti volevano produrre di più per dimostrare agli altri di essere i più bravi. Anche se nessuno lo diceva, tra noi si era creata una forte competizione».

«E poi cosa successe?»

«Arrivata l’estate, il raccolto fu enorme. Nel 1979 raccogliemmo 90 tonnellate di grano, sei volte più dell’anno precedente. In pratica, avevamo prodotto più grano che nei cinque anni precedenti messi assieme! Le nostre famiglie non soffrirono la fame, quell’anno. Non dovetti umiliarmi mendicando nei villaggi vicini. Anzi, ci andai per vendere il mio raccolto al mercato nero. Gli abitanti di quei villaggi mi guardavano meravigliati. Ben presto il nostro villaggio, Xiaogang, divenne il più ricco di tutta la provincia. I nostri guadagni passarono da 22 yuan a 400 yuan all’anno. La notizia cominciò a circolare di bocca in bocca».


Scoperti!

La voce, inevitabilmente, giunse fino al partito comunista. Alla periodica riunione nella sezione locale del partito della contea di Fengyang, il funzionario Wu Huang riferì ai colleghi delle strane voci che circolavano sul villaggio di Xiaogang.

«Quel villaggio di pezzenti?», chiese Shi Zhang.

«Negli anni scorsi non riuscivano mai a consegnare l’intera quota richiesta. Quest’anno però hanno pagato anche i debiti degli anni passati».

«Bene, forse quegli scansafatiche hanno maturato una sana coscienza socialista. I nostri richiami all’obbligo di contribuire al bene comune della Cina hanno finalmente avuto effetto».

«Mmm… Non credo che le cose siano andate così, compagno Zhang. Alcuni abitanti di Xiaogang sono stati visti vendere o scambiare cospicui quantitativi di grano in altri villaggi».

«Questo cosa significa, compagno Huang? Stanno nascondendo il raccolto alle autorità? Sono evasori fiscali?».

«Non posso dirlo con certezza, ma occorre indagare», concluse il funzionario.

Nelle settimane seguenti, alcuni abitanti dei villaggi vicini furono assoldati dal partito per sorvegliare quello che accadeva a Xiaogang. Se notavano eventuali movimenti sospetti, dovevano riferirlo all’autorità. Non ci volle molto a scoprire che una capanna del villaggio, chiusa da lungo tempo, era stata segretamente adibita a magazzino di raccolta delle eccedenze di grano. Il fatto venne confermato da un’ispezione delle autorità.

Il giorno successivo, Yen Jincheng, Yen Hongchang, Yan Lihua e altri capifamiglia vennero convocati presso la locale sede del partito, a Fengyang. Prima di intraprendere il viaggio, abbracciarono i propri cari. Partivano con l’angoscia nel cuore, non sapendo quale sarebbe stata la loro sorte.

Furono ricevuti da Shi Zhang, importante funzionario comunista che in gioventù era stato un acceso rivoluzionario. Aveva attivamente collaborato alla repressione dei “nemici del popolo” durante la collettivizzazione delle terre, e il partito l’aveva ricompensato per i suoi servigi.

«E così, nascondete il raccolto alle autorità, vero?»

«Non abbiamo fatto nulla di male», rispose Hongchang. «Abbiamo consegnato al partito la quota richiesta, e abbiamo pagato anche i debiti degli anni passati».

«Questo lo so, ma chi vi ha autorizzato a dividervi il raccolto in eccedenza, e a venderlo nei villaggi vicini? Il raccolto è di proprietà della comune del villaggio, e voi siete dei ladri! Siete anche evasori fiscali, perché invece di denunciare la quantità del raccolto prodotto all’autorità, l’avete nascosto».

«Sì, è vero», ammise Yen Jengchen, «ma non avevamo altra scelta. Le nostre famiglie soffrivano la fame».

«Voi contadini sapete solo lamentarvi, vi conosco. Ditemi piuttosto come avete fatto a produrre così tanto grano, e con quali criteri vi siete divisi il raccolto. Lo sapete benissimo che la decisione sul modo di utilizzare le eccedenze del raccolto spetta al partito. Avremmo potuto anche darvi un premio per il superamento della quota, se non vi foste comportati come fuorilegge!», li incalzò il funzionario.

«Abbiamo diviso le terre comuni tra le nostre famiglie, e le abbiamo lavorate come facevano i nostri nonni e bisnonni», rispose Lihua. «Ci siamo divisi, con un patto solenne firmato da tutti, le terre e abbiamo stabilito che ogni famiglia, una volta pagata la quota dovuta allo Stato, si potesse tenere tutto il rimanente».

«Cosa? Ma questo è gravissimo! La vostra è stata un’azione assolutamente antisocialista, un vero boicottaggio, anzi un tradimento, degli insegnamenti del nostro Grande Timoniere Mao Zedong! Volevate diventare ricchi, sporche canaglie controrivoluzionarie? Volevate tornare al sistema di un tempo, quando c’erano ricchi e poveri? Non la passerete liscia. La legge parla chiaro: per i traditori del socialismo e della gloriosa Repubblica Popolare Cinese è prevista la pena di morte. Ora tornate ai vostri villaggi, presto sarete richiamati e conoscerete la vostra sorte»

La salvezza

«Tornammo al nostro villaggio con il cuore gonfio di tristezza. Era finita come alcuni di noi temevano: ci avevano scoperti, e per noi sarebbe stata la fine. Ci preparammo a dire addio ai nostri familiari», disse Yen.

«Erano così cattivi i funzionari del partito comunista, nonno?»

«Per noi contadini, quei burocrati erano dei privilegiati. Ai nostri occhi, erano delle persone ricche e potenti che non avevano bisogno di lavorare. Loro non si spaccavano la schiena nei campi come noi. Ci controllavano, ci comandavano, ci ordinavano di fare questo o di non fare quello, ci minacciavano, ci tassavano, ci requisivano i raccolti. Eravamo alla loro mercè. E come se non bastasse, cercavano di indottrinarci con interminabili discorsi sulle virtù del socialismo e sulla grandezza del nostro paese. Ecco quello che facevano».

«E poi cosa accadde?»

«I giorni passavano, ma con nostra sorpresa la polizia non veniva a convocarci o ad arrestarci. Passarono alcune settimane, e ancora nulla. Noi, nel frattempo, continuammo a lavorare secondo i patti del nostro accordo».

«Poi un giorno accadde l’incredibile. Me lo ricordo ancora come fosse ieri», continuò Yen. «Si presentarono al villaggio alcuni membri della sezione locale del partito, avvisandoci che la settimana dopo sarebbe arrivata da Pechino, in visita al villaggio, una delegazione del governo».

«Per quel giorno», ci dissero, «dovete ripulire perfettamente il villaggio. Non vogliamo fare brutte figure, intesi!?».

«Eravamo sorpresi della notizia, e non sapevamo come interpretarla. Forse volevano infliggerci pubblicamente una punizione esemplare, che fosse da esempio per tutti gli altri villaggi agricoli della Cina?».

«E invece?»

«Scoprimmo che la nostra vicenda era giunta a conoscenza delle più alte sfere del partito. Ne avevano parlato perfino al comitato centrale a Pechino. Alcuni membri del governo erano rimasti colpiti dal sensazionale aumento della produzione agricola del nostro villaggio, e volevano saperne di più. Se Mao fosse stato ancora vivo, non avremmo avuto alcuna speranza. Ma per fortuna proprio quell’anno era salito al potere un leader riformista, Deng Xiaoping, il quale era assolutamente intenzionato a far cambiare strada alla Cina. Fu questa la nostra salvezza».


La svolta politica

Alla riunione del comitato centrale, Deng Xiaoping prese la parola: «Onorevoli compagni, molti nostri concittadini hanno duramente sofferto in questi ultimi decenni. Anche molti fedeli servitori del partito sono stati perseguitati durante la Rivoluzione Culturale. Il nostro Grande Timoniere Mao aveva grandi idee sul futuro socialista della Cina, ma alcune delle sue intuizioni sono state distorte dagli estremisti, provocando spaventosi eccessi. Dobbiamo rimediare a questi errori. Ho inviato molte delegazioni all’estero, in questi anni, per scoprire cosa accade fuori dalla Cina. Anch’io ho fatto molti viaggi. Sono stato in Francia, dove avevo studiato da giovane, e negli Stati Uniti. Ogni volta noi cinesi tornavamo umiliati da questi viaggi. L’America, l’Europa, il Giappone, la Corea del Sud, Hong Kong, Singapore, Macao e Taiwan sono anni luce davanti a noi. I lavoratori di quei paesi possono permettersi dei beni che i lavoratori cinesi neanche si sognano. Dobbiamo cambiare strada».

Uno dei membri più conservatori del comitato centrale, Chen Yun, lo interruppe: «Intendi dire, compagno Deng, che dobbiamo abbandonare il socialismo e abbracciare il capitalismo? Il nostro Grande Timoniere si rivolterebbe nella tomba. Su questa strada, il partito non ti seguirà mai».

«Niente affatto», rispose Deng. «Ciò di cui abbiamo bisogno è un socialismo con caratteristiche cinesi. Non dobbiamo restare legati a dottrine ideologiche pensate per le società europee del secolo scorso. Il socialismo è un sistema aperto che deve attingere dai successi di tutte le culture e imparare dagli altri paesi, compresi i paesi capitalisti sviluppati».

«I nostri agricoltori», continuò Deng, «vivono ancora nella miseria. Le campagne non si sono ancora riprese dopo la grande carestia del 1958-1960».I presenti raggelarono. Deng aveva toccato un argomento tabù.

«È questo che volete? Che i nostri lavoratori delle campagne continuino a soffrire la fame? I raccolti delle comuni agricole continuano ad essere bassi in tutte le province».

«E allora cosa proponi, compagno Deng?»

«Ho sentito parlare di un villaggio nella provincia di Anhui, Xiaogang, che ha moltiplicato di sei volte il raccolto. Io credo che dovremmo capire come ha fatto, e imparare da quella esperienza. Se tutti i villaggi della Cina adottassero questo modello, la miseria nelle campagne cinesi scomparirebbe».

«Ne ho sentito parlare anch’io», commentò Chen Yun. «Ma credo che il modello di Xiaogang sia troppo capitalista. Mao non lo avrebbe approvato».

«Socialismo e capitalismo sono termini ideologici. Io vi dico che non ci deve importare di che colore sia il gatto, se bianco onero. L’importante è che catturi i topi. Lasciate che qualcuno cominci ad arricchirsi. Tutti gli altri seguiranno!».

La conclusione del suo discorso suscitò gli applausi scroscianti degli altri membri del comitato. Stanchi degli interminabili furori ideologici dalla Rivoluzione Culturaleche Mao aveva lanciato nel 1966, i dirigenti cinesi approvarono con convinzione la linea pragmatica di Deng.


Gli eroi contadini

«Così andarono le cose, Song. Grazie a Deng e agli altri riformatori, la nostra situazione si ribaltò. Da un giorno all’altro, non eravamo più i fuorilegge, gli evasori fiscali, i nostalgici del capitalismo su cui pendeva una condanna a morte. Diventammo invece un villaggio modello per le riforme della Cina. I capi del partito vennero a studiare quello che avevamo fatto. Oggi la storia degli abitanti di Xiaogang viene insegnata nelle scuole e ricordata in questo museo memoriale».

«Avete avuto un grande coraggio, nonno»

«Sì, caro nipote. Devo ammettere che rischiammo grosso, ma fummo fortunati. Il sistema adottato nel nostro villaggio ebbe un successo strepitoso, e in poco tempo fu adottato da quasi tutti i villaggi della Cina. Nel 1982, non esistevano più comuni agricole in tutto il paese».

«E non è tutto», continuò Yen. «Il nostro sistema fu, in un certo senso, adottato anche nelle città. Ad un certo punto, negli anni Novanta, dilagò la passione per gli affari. Era possibile aprire delle attività, e tutti volevano farlo. C’era chi commerciava e chi faceva vestiti nello scantinato. Dalle campagne tanti andavano in città per far soldi. Un tassista o un barbiere arrivarono a guadagnare dieci volte più di un professore o di un impiegato statale. Milioni di persone si licenziarono dal proprio impiego pubblico per aprire un’attività».

«Oggi», continuò Yen, «la Cina non è più il paese povero che era sotto Mao, in cui bisognava solo lavorare e obbedire al partito. Da quando sono cominciate le riforme, non ci sono state più carestie, e l’economia cinese ha cominciato a correre come un treno. Oggi il nostro paese è diventato una grande potenza economica. Se la Cina è diventata la fabbrica del mondo, un po’ di merito è stato anche nostro. Siamo stati noi, gli abitanti di Xiaogang, ad aprire la strada agli altri. Adesso però devo farti vedere un’altra cosa», disse Yen.

Mostrò al nipote una teca, nella quale era conservato il documento originale che aveva trasformato la Cina. Sulla carta spiccavano ancora le 18 impronte rosse.

Song lo osservò con stupore, abbracciò il nonno e gli disse con orgoglio: «Nonno Yen, sei il mio eroe».

Questo racconto di Guglielmo Piombini è contenuto nella raccolta Un mattone dopo l’altro. Racconti, recentemente pubblicata dall’editore Rubbettino, ordinabile alla Libreria del Ponte (€ 15).


Il libro contiene 11 racconti incentrati sulla difesa della proprietà privata e del libero mercato scritti da Carlo Lottieri, Sandro Scoppa, Vincenzo Nasini, Gianfranco Fabi, Andrea Giuricin, Gaetano Masciullo, Roberta A. Modugno, Guglielmo Piombini, Daniela Rabia, Alberto Scerbo, Alessandro Vitale.

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